La banca dei sogni meridionali

Poche tematiche d’economia suscitano interessi e saccenterie come quelle relative al sistema delle banche e dei mercati finanziari. Se, poi, la discussione riguarda il sistema creditizio nel Mezzogiorno l’audience è assicurata: si può spaziare dall’annosa discussione tra banchieri e imprenditori se il razionamento del credito sia il frutto di un comportamento malvagio delle banche o di una scarsa capacità imprenditoriale dei capitani di industria nostrani; del sistematico deflusso di risorse finanziarie dal meridione verso il resto del paese; del periodo, «...quelli sì che erano tempi...» in cui le banche meridionali battevano moneta da istituti di emissione. E sicuramente Tremonti quando ha pubblicizzato le proprie riflessioni circa la necessità di una banca meridionale autoctona sarà stato sicuro, oltre che di sferrare un poco velato attacco alla politica di supervisione della Banca d’Italia e di Fazio, di far breccia su di un uditorio pronto a innalzare ancora il vessillo del Mezzogiorno colonizzato. Il dramma è che demagogia e vittimismo poco si coniugano con la lucidità dei contenuti: meglio sarebbe stato se provocazione e risposte avessero riflettuto sulla storia creditizia meridionale degli ultimi quindici anni. In breve: dall’inizio degli anni Novanta il sistema creditizio italiano subisce una trasformazione tanto rapida quanto radicale. L’affermarsi di un nuovo modello di vigilanza da parte della Banca d’Italia, la concentrazione di banche in Europa determinano un processo di fusioni, poche, e di acquisizioni, molte, tra le banche italiane: tra il 1990 e il 2001 le acquisizioni bancarie in Italia sono state 229 e le banche oggetto d’incorporazione sono risultate a bassa redditività, a elevati costi del personale, con quote di sofferenze ben al di sopra della media. Il lettore capirà bene quanto sia stato facile e, tutto sommato, vantaggioso acquisire la miriade di piccole banche e di casse popolari meridionali, oltre, ovviamente, al gigantesco affaire del Banco di Napoli. Tra il 1990 e il 2002 il numero di banche con sede legale nel Mezzogiorno è diminuito di circa 150 unità a vantaggio dei grandi gruppi bancari nazionali. È ovvio che un simile fenomeno ha rimodellato la politica degli impieghi creditizi verso il basso nei confronti delle imprese meridionali, specie quelle di medie e piccole dimensioni. Sfaldatosi il modello d’economia assistita, le imprese meridionali hanno perseguito, come ci ha ampiamente documentato Adriano Giannola, una pratica di downsizing, cioè del ripristino degli equilibri finanziari “verso il basso”, contraendo i livelli di produzione e d’occupazione e ridimensionando fabbisogni finanziari e indebitamento a breve e a lungo termine. Questa la realtà attuale del rapporto banca-impresa nel Mezzogiorno di oggi: una banca universale nazionale per nulla propensa a scommettere su clienti piccoli e qualitativamente rischiosi, pronta a battere le strade dell’attivo finanziario internazionale in titoli, partecipazioni, spesso off shore. Il network d’informazioni esistenti tra le varie capogruppo bancarie fa sì che il diniego di un finanziamento a un cliente diventi valutazione comune e, dunque, costituisca un diniego di tutto il sistema. A quanto ci risulta un solo grande gruppo bancario ha timidamente iniziato, nel Mezzogiorno, una pratica di valutazione di alcuni rapporti finanziari delle imprese per ipotizzare la bontà di un maggiore ausilio della finanza a quegli imprenditori ritenuti più dinamici e finanziariamente meno esposti. Ma si tratta, ancora, di poca cosa. La verità è che la banca universale, nell’esperienza italiana e nel Mezzogiorno, si è dispiegata diversificando l’attivo a scapito della clientela tradizionale e non diversificando e innovando a favore della clientela tradizionale. È difficile dire quanto il modello di banca universale che è andato prevalendo in Italia sia stato ineluttabile, ovvero sia dipeso dalla scarsa lungimiranza di banchieri e della Banca di Italia. In Germania, tanto per fare un esempio, così non è stato: nei Lander orientali, le banche universali, anche colossi come la Deutsche Bank, hanno continuato ad agire in favore della piccola e media impresa. Questa la storia recente delle banche nel Mezzogiorno: e, forse, quando si propone una nuova banca «per il Mezzogiorno» questa storia andrebbe riletta per farne tesoro. Cosa assicurerebbe che la nuova banca si comporterebbe diversamente dalla banca universale oggi prevalente? Quale sarebbe la competitività che ne garantirebbe la possibilità di rastrellare depositi in un mercato oramai completamente detenuto dai grossi gruppi? E ammesso che un ammontare sufficiente di depositi sia rastrellato, cosa consentirebbe l’esposizione, ovviamente più rischiosa nel breve periodo, verso la piccola imprenditoria locale? Sono disponibili le istituzioni regionali a rafforzare i fondi di garanzia verso un simile operato bancario? La natura stessa delle domande esplicita il dilettantismo di una proposta, quella di Tremonti, e del coro delle risposte, vittimistiche e provinciali. È certamente vero che il modello organizzativo della banca universale sta scontando in Italia limiti e contraddizioni a favore di un riassetto che privilegia specifici settori e comparti. Pensare, tuttavia, che i banchieri siano in grado autonomamente di modificare l’atteggiamento verso la scarsa imprenditoria dinamica del Sud è un dissennato tentativo di rimozione della storia.

Repubblica NAPOLI, 10 ottobre 2004

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