Il Patto di stabilità e la crisi del Sud

Con scarsa consapevolezza della classe dirigente meridionale si va consumando negli uffici della Commissione Europea una silente ma drastica rivoluzione nelle modalità d’indirizzo della politica economica comunitaria. E, probabilmente, quando quegli effetti si saranno manifestati torneremo a lamentarci della nostra incapacità di influenzare la direzione di simili mutazioni. I fatti: i ministri finanziari dei paesi aderenti all’Unione Europea hanno nominato il lussemburghese Jean-Claude Juncker presidente del Comitato Economico e Finanziario Europeo, con il compito di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio dell’area dell’euro. In questi stessi giorni, il commissario per gli affari economici e finanziari Joaquin Almunia ha presentato un progetto di riforma di quel Patto di Stabilità, che, com’è noto, vincola a parametri stringenti l’evoluzione del disavanzo e del debito pubblico dei paesi aderenti. Astruserie, sarà qualcuno tentato di pensare; lontane dal pane quotidiano di una disoccupazione meridionale crescente e di un’inflazione che, oramai, solo l’Istat continua pervicacemente a sottostimare. E invece no: quello che va succedendo a Bruxelles e a Francoforte in questi giorni avrà effetti sulle regioni meridionali, tanto più imprevisti ed esogeni quanto più non saremo in grado su di essi di intervenire. Nei malinconici locali della Commissione sono messi in discussione i punti cardine sui quali si è retto un quinquennio infelice di gestione dell’economia europea. Quando, all’inizio del 1999, fu varata l’Unione Monetaria, l’economista americano Paul Krugman definì la struttura della politica economica europea come un enorme “pilota automatico”. L’espressione, acuta e appropriata, sintetizzava l’enorme livello d’automatismo che si annetteva agli strumenti della politica economica comunitaria. Sul versante monetario la Banca Centrale Europea era deputata al controllo della stabilità monetaria d’Eurolandia senza alcun’attenzione all’andamento della produzione e dell’occupazione e, a differenza di qualunque altra banca centrale, priva di controllo d’indirizzo politico. Sul versante fiscale il Patto di Stabilità avrebbe dovuto evitare qualunque tentazione dei governi nazionali a ricorrere al disavanzo di bilancio nel tentativo di stabilizzare il ciclo economico. L’automatismo del pilota automatico era la risposta del mercato e delle sue imprescrutabili leggi alla discrezionalità della vituperata gestione keynesiana dell’economia. Ma, come negli automatismi del dottor Stranamore, la rinuncia alla saggezza delle scelte è foriera di sciagura. Tutti ricordano le vicende dell’economia comunitaria dal 1999 in poi: incremento della disoccupazione nelle regioni più deboli dell’Unione, avvitamenti cumulativi del tasso di cambio dell’euro, prima verso il basso e poi verso l’alto, tassi d’interesse elevati anche quando Stati Uniti e Giappone imprimevano spinte espansive alle rispettive economie, pressioni sui disavanzi pubblici per compensare la caduta della domanda. Da qui un ripensamento timido dapprima, ma poi sempre più insistente, per la revisione degli indirizzi comunitari: una figura in grado di controllare la coerenza delle politiche economiche europee, specie rispetto a quell’autentico corpo separato costituito dalla Banca Centrale Europea; una proposta d’attuazione meno meccanica del Patto di Stabilità che valuti anche, in prospettiva, la dinamica di contenimento delle spese e le riforme pensionistiche. Poco rispetto a quanto sarebbe necessario: osservatori avvertiti di diversa estrazione politica e culturale, il commissario Monti, il presidente Prodi, il cancelliere britannico dello Scacchiere Gordon Brown, la federazione dei metalmeccanici della CGIL, hanno di recente invocato una riforma del Patto di Stabilità, avendo a cuore soprattutto le regioni meno forti di Spagna, Portogallo, Grecia e Italia. Esimere, ad esempio, gli investimenti pubblici dal computo delle spese bloccate delle amministrazioni pubbliche avrebbe effetti benefici su produzione e occupazione e vincolerebbe il governo centrale ad ipotizzare manovre di finanza pubblica basate sulla qualità della spesa e non su utopici tagli della tassazione. Le istituzioni locali, ponendo l’accento sulla necessità di riforma del Patto, indicherebbero ai cittadini che la politica economica comunitaria può essere partecipata ed espansiva e che essa non si riduce ad una moneta portatrice d’inflazione. Che piaccia o no, l’Europa è un futuro da modellare, e non solo una scadenza elettorale da sfruttare.

Repubblica NAPOLI, 12 settembre 2004

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