L’economia stagnante e il mercato del lavoro

Un famoso economista, insignito anni orsono del premio Nobel, amava definire l’economia come la più artistica della scienze o, alternativamente, come la più scientifica delle arti. Il paradosso verbale tendeva a sottolineare quanto la comprensione dei fenomeni economici fosse una saggia mistura di sensibilità interpretativa e di rigorosità poco meccanicistica. Ed era proprio una miscela del genere che ha portato gli analisti economici più giudiziosi a indicare per tempo i pericoli che l’economia italiana, e soprattutto quella meridionale, correvano riguardo il crescente depauperamento industriale e lo stillicidio del progressivo allontanamento di occupati dal settore manifatturiero. Nello stesso momento le indicazioni dell’establishment seguivano un approccio all’economia come la più «artistica delle arti». La visibilità di talune tendenze, appariscenti ma deboli, facevano premio sulla comprensione; l’ottimismo di maniera prevaleva sulla necessità, poco rassicurante, di dover affrontare i nodi del declino industriale. Da qui una litania sulla diminuzione del tasso di disoccupazione; la geografia della piccola impresa in grado di essere competitiva sui mercati internazionali; il primato del settore dei servizi avanzati rispetto all’obsoleto modello di sviluppo basato sull’industria tradizionale. Ma che l’occupazione in aumento fosse del tutto precaria, che la piccola impresa abbisognasse di finanza adeguata, che l’industria manifatturiera costituisse ancora il punto di riferimento dei paesi più avanzati, erano particolari sottaciuti perché poco spendibili politicamente e che avrebbero inevitabilmente riportato l’economia lontano dall’impressionismo gioioso verso le brume della cupa scienza triste. Ma, per quanto oscillante tra l’arte e la scienza, l’economia ha esiti inevitabili, specie quando l’approccio interpretativo e di policy è così dilettantesco. I fatti da cui muovere sono crudi nella loro oggettività. Da oltre 36 mesi la produzione industriale in Italia è stagnante o cedente; e ciò non era mai successo prima nella storia economica. Nel Mezzogiorno, in Campania, il fenomeno è stato solo occultato dalla vivacità congiunturale delle piccole e medie imprese. Il parziale contenimento dell’occupazione industriale è stato dovuto ad alcuni fattori che hanno, oramai, esaurito la loro funzione. Il primo: in assenza di innovazione, il prezzo ha costituito il fattore di maggiore capacità competitiva delle esportazioni meridionali e campane. Ma, in presenza di cambi fissi in Europa e di apprezzamento dell’euro sul dollaro, la penetrazione commerciale è oramai esaurita. Ancora: mentre prima le crisi aziendali, grandi e piccole, non palesavano incrementi espliciti dei licenziamenti, a causa del ricorso ai consueti ammortizzatori aziendali e sociali, la nuova regolamentazione del mercato del lavoro consente allontanamenti immediati perché in caso di bisogno, si potrà sempre ricorrere ad una delle innumerevoli figure atipiche che è possibile assumere a tempo determinato. Per ultimo: la politica economica del governo, ma si badi bene non solo di quello attuale, non è stata fin qui in grado di individuare alcuna direttiva verso quei settori strategici sui quali Francia, Inghilterra e Germania hanno già ipotecato la propria leadership. Piaccia o no, l’impennata della cassa integrazione straordinaria e la chiusura di nuove fabbriche ha dunque ben poco di congiunturale. E l’attuale riforma del mercato del lavoro esalta irresponsabilmente le irresponsabilità della politica industriale verso il Mezzogiorno. Ma pare che a tutto c’è rimedio: se per Keynes si trattava, ma solo provocatoriamente, di scavar buche e poi riempirle, per l’attuale governo si tratta effettivamente di scavar tunnel e poi ingolfarli di autovetture.

Repubblica NAPOLI, 14 aprile 2004

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