Tanto carbone ai divulgatori di luoghi comuni

Epifania: è tempo di regali e, qualche volta, di cenere e carbone. E l’economia campana è, malinconicamente, abituata a ricevere i secondi piuttosto che i primi: stabilimenti che chiudono tra proteste sempre più frustrate; imprese che decidono di localizzare le nuove produzioni in altre regioni; incrementi dei prezzi e costanza delle retribuzioni monetarie per lavoratori che, attoniti, osservano code da Gucci per acquistare griffe scontate a soli cinquecento euro. Sia buona la Befana: se le è possibile eviti di portarci qualcosa. Se non potesse fare a meno consegni qualche pezzetto di carbone a chi, nel grigiore della situazione campana, continua, pervicacemente, a somministrare promesse e luoghi comuni sul presente e sul futuro della nostra situazione produttiva. La Befana, che di anni ne ha non pochi, capirà la nostra avversione ai luoghi comuni: quando essi sono adoperati dal circus dei soliti noti, intellettuali e politici nostrani, l’omologazione, l’appiattimento interpretativo e la ricerca furba di consenso fanno premio sull’articolazione del ragionamento, sull’intelligenza di chi ascolta. L’economia è materia che si presta al contrabbando di luoghi comuni: nell’ultimo quindicennio lo scienziato sociale ha preteso di trasformarsi in analista in camice bianco, in grado di ammannire presunte leggi di mercato a mo’di pillole, tecnicismi terminologici tanto complicati quanto vacui. E la sinergia, questo sì un altro vocabolo tristemente ricorrente, con il politico ha innescato un patrimonio di banalità di cui faremmo volentieri a meno. Se la Befana può, allora, porti un po’di cenere e di carbone a chi, in televisione, sui giornali o nei convegni fa ricorso ai seguenti luoghi comuni. Il primo: “...si tratta di un’iniziativa produttiva dal basso, ecocompatibile e dai rilevanti impatti occupazionali...”. La Befana, magari all’atto della consegna del carbone, ricordi all’interessato che nessun’iniziativa è di per sé ecocompatibile: iniziative produttive apparentemente pulite possono essere gestite catastroficamente e viceversa. L’impatto occupazionale, poi, è sempre incerto, difficile da quantificare e determinato dalla redditività di medio periodo dell’iniziativa. Il secondo: “...tendiamo verso investimenti ad alto contenuto di ricerca e sviluppo, collegati con il mondo della ricerca...”. Niente di più difficile da realizzare: la crescita dei settori avanzati è figlia di una ferrea e strategica programmazione delle risorse e necessita di rapporti sedimentati con imprese d’eccellenza operanti sul territorio. La natura non compie salti, scriveva Alfred Marshall nel suo memorabile volume dedicato all’economia dell’impresa. Se un salto si volesse operare in Campania, prescindendo dall’esistente, si dovrebbero incentivare investimenti a tecnologia avanzata di imprese esterne: ma ciò presupporrebbe il coordinamento degli incentivi e delle agevolazioni, un interlocutore unico all’esterno che funga da “agenzia” per la regione, secondo un modello che in altre realtà, ad esempio in Irlanda, ha funzionato quasi dopo un quinquennio dalla sua realizzazione. Ancora: “...l’economia della regione è frenata dallo sviluppo esogeno dell’economia illegale...”. È solo parzialmente vero: la Campania ha teso a svilupparsi proprio in quei settori, e chi volesse può approfondire i preziosi rapporti semestrali al Parlamento della Direzione Investigativa Antimafia, in cui più elevata è la probabilità di commistione e di riciclaggio della finanza camorristica: il commercio al dettaglio, la grande distribuzione, gli ipermercati, le opere pubbliche e i settori tradizionali quali il tessile e l’abbigliamento. I continuum tra impresa legale e impresa illegale sono rilevantissimi: sublimarne le cesure serve a ben poco. Infine: “...si ha bisogno di una banca del Mezzogiorno per il Mezzogiorno...”. Qui siamo a metà strada tra la tautologia e la mancanza di senso della storia: che la Campania abbia bisogno di un maggiore ammontare di finanziamenti alle imprese a costi più contenuti è del tutto ovvio e indiscutibile. Forse sarebbe il caso di articolare il pensamento, dicendo perché la proprietà meridionale dovrebbe favorire impieghi meridionali, senza l’armamentario dei confidi, delle garanzie pubbliche e delle fidejussioni agli imprenditori. Quest’ultima ci pare la banalità più grossa. Se la Befana, tuttavia, volesse recapitare il doppio di cenere e di carbone ai divulgatori di un altro dei luoghi comuni citati, non ci opporremo.

Repubblica NAPOLI, 06 gennaio 2005

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