Osservazioni e riflessioni sui cambiamenti del nostro sistema ante e post virus.

Osservazioni e riflessioni sui cambiamenti del nostro sistema ante e post virus.

Giovanni De Falco, presidente Ires Campania.

 

Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.

Haruki Murakami

 

La possibilità che possano reiterarsi spinte autonomiste, ricostruzione di possenti mura a difesa dei confini sono sempre presenti, oltretutto nei giorni del “contagio” queste spinte sono venute a galla un po’ dappertutto con la erronea convinzione di poter difendere il proprio piccolo “pezzo di terra”, il proprio orto o giardino. I fatti però hanno dimostrato che nessun virus avrà mai l’accortezza di fermarsi ai confini dei piccoli o grandi imperi. L’idea che l’umanità abiti in una sola nazione che si chiama “mondo” non è sfiorata a nessuno o, per lo meno, comunque a pochissimi.

Tuttavia è bastato capire che questa piaga sanitaria non ha possibilità di essere affrontata con l’attuale federalismo sanitario (ventuno differenti modelli regionali e manco uno in grado di garantire le adeguate difese e l’adeguato servizio ai cittadini, alimentando un vasto federalismo corruttorio) per mettere in soffitta, almeno per ora, l’Autonomia differenziata.

Ciò che ha molto colpito in questi giorni è che “questa” Europa, così come si è rappresentata, non serva a nessuno. Tra Boris Johnson che invocava il “contagio di gregge” (318mila vittime calcolate) per poi ringhiare misure draconiane contro il virus, Macron che consigliava di andare a teatro e a votare perché la vita continua e poi scende sul sentiero di guarra, Christine Lagarde che (dicono per gaffe) lanciava maledizioni shock contro l’Italia per poi promettere 750 miliardi di euro per contrastare l’incombente crisi economico-finanziaria, la Merkel che guardava e taceva per poi svegliarsi dichiarando «sarà peggio della seconda guerra mondiale». Questa Europa che esce dal suo letargo alle voci di positività al virus di personaggi famosi, attori, scrittori, sportivi e, per quel che riguarda la Spagna, la moglie del premier Pedro Sanchez e il presidente della Catalogna, Quim Torra, questa Europa è la negazione della solidarietà, della collaborazione, della crescita comune.

E’ l’Europa priva di Costituzione, il necessario corpo di strumenti e norme condivise. E’ l’Europa che abolisce il Patto di Stabilità e Crescita dopo aver capito, con giorni di ritardo, che il sistema economico continentale era compromesso. L’Europa che si è mossa in ordine sparso e si è rappresentata con un gruppo dirigente che, francamente, è riuscito a rivalutare il nostro, nonostante molte (e mie personali) perplessità.

Andrebbe quindi ripensata l’idea di “internazionalizzazione” e “globalizzazione” che ad oggi ha semplicemente risposto ad esigenze particolari: di gruppi, di sistemi economici culturalmente imperialisti, dove l’idea stessa di sviluppo internazionale e globalizzato era più collegato all’impiego delle risorse e delle ricchezze territoriali (degli altri) ad uso e consumo delle grandi organizzazioni occidentali, sia politiche, sia industriali, sia sociali.

Condizioni che hanno portato ad una serie di squilibri tutti a favore dei “ricchi” sistemi, prevalentemente occidentali. Da qui le definizioni di “terzo” o “quarto” mondo.

Io credo che da qui bisognerebbe ripartire. Bisogna lavorare per una più equa ripartizione delle risorse, da una possibile riorganizzazione dei sistemi di sviluppo ed utilizzare i termini di “internazionalizzazione” e “globalizzazione” in una idea di squilibri (per una volta) all’incontrario, che i pochi ricchi possano dare tanto ai “tanti poveri”.

Chiediamoci infatti se debellare da noi i tanti virus (non solo Covid-19) che abbiamo distribuiti nel mondo sia sufficiente a garantire una immunodeficienza per l’umanità, confini o non confini. Questa lotta, come oggi si configura (qualcuno la definisce “guerra”) serve a mettere in sicurezza quel sistema occidentale, quello ricco da cui oggi il mondo dipende, parliamo del 20% (forse anche 15%) di popolazione sulla totalità. Chiediamoci se valga la pena…

La distribuzione in Italia del virus, ed i suoi malefici effetti, devono far riflettere. Il Nord prima che il Sud, le quantità del contagio in termini di popolazione coinvolta e di effetti sul sistema produttivo (prima che in quello turistico che ha invece travolto il Mezzogiorno), disegnano anche le differenze territoriali e di sistema.

Avrà tutto ciò effetti sui tradizionali squilibri Nord-Sud? Sulla ridistribuzione delle risorse nel nostro Paese? Ebbene io credo che non ci saranno effetti, nel senso che il Mezzogiorno resterà sempre e comunque residuale rispetto alle politiche nazionali.

La situazione sanitaria del Paese è frutto della progressiva erosione del sistema: ridotti investimenti, tagli sia alle strutture sia alle risorse professionali sanitarie (sono stati assunti più burocrati dirigenti e responsabili di settore che medici e infermieri), tagli alla ricerca biomedica e farmacologica.  

Alla “guerra” contro il virus Covid-19 ci hanno mandati alla stessa stregua con cui ci spedirono nel secondo conflitto mondiale (guerra vera): con i moschetti della prima guerra mondiale e terza d’indipendenza, con aerei in compensato e tela, con le scarpe con suole di cartone ed elmetti di alluminio.

Hanno dichiarato una guerra al virus in assenza di mascherine di isolamento, senza o con insufficienti strutture ospedaliere, senza letti, senza reparti per la terapia intensiva. Incapaci di “difendere” la popolazione civile. E’ la visione (da rabbrividire) del corteo dei mezzi militari che trasportano le salme fuori dal Comune di Bergamo a dover creare condizioni di consapevolezza e coesione, più che le canzoni o gli applausi al balcone.

La migliore sanità del mondo occidentale messa in ginocchio da un virus? No, permettetemi di stare fuori dal coro.

E non soltanto perché questa sanità è quella che ci è rimasta dopo le politiche dei tagli, che molti “baroni”, per ragioni politiche e personali, hanno condiviso e sostenuto perché esaltava la qualità, di cui essi affermavano di essere garanti. Ma anche per quegli stessi “baroni” che con le loro ottimistiche dichiarazioni («molto difficilmente questo virus potrà da noi diffondersi anche per le modalità con le quali va distribuendosi dalla provincia cinese di Wuhan punto di origine» 20 febbraio 2020. Ndr) hanno rallentato l’allertamento nazionale e che, non contenti, criticano le attività di ricerca poste in essere dal Pascale-Cotugno (Napoli, Campania, Mezzogiorno, evidentemente non Italia). Se i segnali sono questi…

Le qualità evocate dovrebbero risiedere anche in quel sistema scolastico e universitario pure riformato e incapace, ad oggi, di sfornare quelle competenze necessarie al mercato del lavoro.

La scuola e l’università devono diventare il luogo dove scoprire e provare a risolvere problemi, dove sbagliare, cadere e imparare a rialzarsi. Devono tornare a essere una palestra dove poter giocare e allenarsi. Perché è proprio lì, nella nuova scuola e nell’università, che si inventano le professioni del futuro.

In questi ultimi anni i percorsi di formazione universitari hanno prodotto una offerta a dir poco sconcertante lavorando su profili professionali, magari anche di grandi contenuti, ma totalmente scollegati con le esigenze ed i fabbisogni del mercato del lavoro locale e delle imprese.

L’alta formazione universitaria avrebbe la possibilità di colmare molte lacune sia nella ricerca, sia nelle competenze, sia nelle trasformazioni delle organizzazioni del lavoro, ma la prima da colmare è quella di definire obiettivi e finalità formativi utili ai fabbisogni delle imprese e del mercato del lavoro.

Quello stesso mercato del lavoro che nell’era del post virus resterà in qualche modo modificato, non so se rinnovato e o trasformato.

In questi giorni si scopre che il lavoro da casa, oggi “Smart working”, consente una attività comunque di produzione in ambiente sereno e protetto. Vorrei sommessamente ricordare che chi scrive ebbe modo di trattare questi argomenti, insieme con la sociologa dott. Diletta Capissi, in un piccolo saggio “Il telelavoro applicato nell’area metropolitana di Napoli”[1], in un libro pubblicato a cura della società S3.Studium, era il 1993, sono passati ventisette anni e in quel tempo si intravedeva una prospettiva di lavoro con un indirizzo terziario e si studiava la possibilità che il telelavoro, o se volete lo Smart working, potesse dare una risposta concreta all’evoluzione del lavoro.

Dopo ventisette anni, e soltanto a seguito di una emergenza, si è sperimentata una soluzione che avrebbe potuto essere già propria di un sistema del lavoro moderno che, invece, resta imprigionato in una cultura dello sviluppo del lavoro ostaggio di poteri reciprocamente antichi e ingabbiati da paure di “non governo”, cioè di incapacità di controllo, partecipazione e condivisione, incapacità di rappresentanza.

I due soggetti in questione sono le Imprese e i Sindacati. Questo sorprende perchè proprio questi soggetti sono stati protagonisti di uno sviluppo costante che dal dopoguerra fino alla fine del novecento ha collocato questo Paese tra i primi otto Paesi al mondo più sviluppati.

Il problema è che negli ultimi anni si è rinunciato ad una attività di ricerca che, invece, in quegli anni è stato l’elemento portante di tutte le trasformazioni del mondo del lavoro (per le imprese: organizzative e produttive; per i sindacati: diritti personali e collettivi).

Le differenze e le sperequazioni infrastrutturali sono ancora fin troppo evidenti. Nelle comunicazioni, per esempio, quella della telefonia, nonostante una conclamata concorrenza tra grandi gruppi nazionali e internazionali, non ha garantito una qualità dei servizi.

Provate a seguire una trasmissione giornalistica per radio o per televisione quando si collegano i vari esperti: linee disturbate, cadute di segnale, immagini video che si bloccano o l’improvviso oscurarsi di Skype si accompagnano alla difficoltà dei conduttori che dovranno riempire spazio e tempo nelle trasmissioni. Oppure quando si è in viaggio le numerose zone di segnale zero che vi proiettano ad essere come gli esperti prima menzionati.

E’ clamoroso il disservizio telefonico, per esempio, nella super pubblicizzata nuova metropolitana di Napoli dove si saranno pur realizzate le più belle stazioni d’Europa e del mondo ma hanno dimenticato i treni che dovrebbero percorrerla (a proposito di infrastrutture) ed è assente qualsiasi possibilità di comunicazione. Pensate che in un recente attentato nella metropolitana di Londra i passeggeri con i telefonini allertarono e guidarono i soccorritori.

Vaste aree territoriali restano ancora scoperte dal servizio della banda larga.

Scuola a pezzi, università a pezzi, sanità a pezzi, infrastrutture a pezzi, sistema lavoro a pezzi, economia a pezzi, Europa a pezzi, Italia a pezzi, Mezzogiorno come stava. L’Italia del post virus si troverà ad affrontare una situazione forse più grave di una guerra militare perduta.

Sarà decisivo allora costruire una nuova classe dirigente che sia all’altezza di questo compito, un tessuto di una nuova dirigenza burocratica e un nuovo management in grado di traghettare il sistema ante virus a quello post, valorizzando le poche risorse investendo su pochi ma determinanti settori. Basta con i finanziamenti dell’effimero. Basta con i soldi regalati a corporazioni e postulanti vari. Basta con le ricche elargizioni agli interessati finanziatori delle campagne elettorali. Basta con le leggi finanziarie di fine anno, che eccitano i lobbisti e deprimono le casse dello Stato. Basta con le leggi incomprensibili anche per gli esperti e gli stessi estensori che si traducono in estenuanti mediazioni sull’uso dal pubblico denaro.

Il primo segnale di cambiamento potrebbe venire dalla decisione di puntare decisamente ad investire su scuola, università e ricerca senza rincorrere l’inutile (e non strategico) salvataggio di una compagnia di bandiera (bianca), Alitalia, che si è dimostrata una idrovora di risorse senza alcun beneficio per i cittadini e per il Paese. 

Soltanto allora sapremo se le condizioni ante virus avranno ceduto il passo a scenari innovativi e, per certi versi, rivoluzionari.



[1] “Il telelavoro: teoria e applicazioni. La destrutturazione del tempo e dello spazio post industriale” a cura di G. Scarpitti e D. Zingarelli della S3.Studium del prof. Domenico De Masi, ed. Franco Angeli, Milano 1993.