Infodemia la nuova pandemia

Infodemia la nuova pandemia

Stefano Dumontet, docente Università degli Studi di Napoli "Parthenope"

 

“Infodemia” è un nuovo sostantivo oggi largamente utilizzato per descrivere le caratteristiche della copertura mediatica della recente diffusione del coronavirus. La infodemia è l’equivalente del termine epidemia riferito al mondo della comunicazione, un esplicito riferimento alla biologia per descrivere fenomeni che esulano dal campo di osservazione di questa disciplina, prendendo a prestito concetti che vengono poi estesi al marketing (marketing virale), all’informazione (informazione virale) ed alla rapida diffusione di idee (memetica).

 

 

Cerchiamo di fare un po' d’ordine in queste definizioni. Innanzitutto, perché fare esplicito riferimento ai virus in contesti extrabiologici come quello della comunicazione? La risposta è semplice ed allo stesso tempo inquietante. E’ bene cominciare con il descrivere i virus, una forma biologica molto particolare che non esprime le caratteristiche comuni ad ogni essere vivente (capacità di riprodursi, capacità di alimentarsi, presenza di un metabolismo, ecc.). Il virus fuori da una cellula di un organismo, sia esso un uomo o un batterio, non è altro che un ammasso di proteine, lipidi e acidi nucleici e dipende dalla cellula che infetta per la sua moltiplicazione, ma non per la sua sopravvivenza in senso stretto, perché non essendo un organismo vivente non può né vivere né morire. Non bisogna credere che tutti i virus siano pericolosi patogeni. I virus sono elementi fondamentali delle catene alimentari, perché controllano le popolazioni dei microrganismi presenti nell’ambiente, i quali, a loro volta, sono essenziali per il riciclo degli elementi nutritivi negli ecosistemi. I virus possono anche trasferire materiale genetico da un organismo all’altro, divenendo così strumenti di mescolamento di geni all’interno di intere popolazioni. Il fatto preoccupante è che i contesti extrabiologici che utilizzano la metafora del virus si riferiscono esclusivamente alle sue potenzialità patogene. E’ come dire che la diffusione “virale” di un meme (vedremo tra poco cos’è) equivale ad un’infezione che si diffonde rapidamente, visto che la velocità di duplicazione del materiale genetico virale all’interno di una cellula è esponenziale. In altri termini un virus patogeno che infetta una cellula produce centinaia di copie di se stesso, ognuna della quali è in grado di infettare una nuova cellula e ripetere il ciclo, così come un meme di informazione che raggiunge un soggetto viene da questo moltiplicato e diffuso. Ogni altro soggetto raggiunto dal meme fungerà da nucleo di trasmissione ad un gran numero di altri soggetti. E così via.

La parola meme, oggi utilizzata principalmente per definire le unità di informazione diffuse su Internet, fu coniata nel 1976 da Richard Dawkins (1), noto biologo inglese, che studiò l’applicazione di concetti della biologia evolutiva allo studio del trasferimento di informazioni culturali. Se un gene è un'unità di informazione genetica che si trasferisce da un genitore alla prole, un meme è un'unità di informazione culturale - come un'idea, una convinzione o un modello di comportamento - in grado di trasferirsi da persona a persona. I memi sono prodotti nella mente degli individui e si diffondono raggiungendo la mente di un'altra persona. Questo trasferimento è più plastico di quello dei geni perché può effettuarsi anche dalla progenie ai genitori, cosa che i geni non possono fare. Poiché le idee possono combinarsi con altre idee, i memi sono anche in grado di fondersi ed evolversi. Benché lo studio dei memi (la memetica) sia stato criticato come non scientifico, il termine è oggi ampiamente usato per descrivere informazioni rapidamente diffuse. Benché la teoria dei memi appaia intrigante, non è così semplice tentare una sistematizzazione concettuale, perché è un po' complicato definire un meme. Dire che il meme, nella sua qualità di schema di informazione, deve poter essere replicato in quantità illimitate attraverso la comunicazione tra individui, indipendentemente da ogni replicazione di tipo genetico, ci aiuta a capirne la natura, ma non ci aiuta a definirlo in modo univoco. Il definire le tre caratteristiche che deve possedere ogni buon replicatore (fedeltà della copia, fecondità e longevità) ci può ancora aiutare, ma anche questo lascia un ampio margine di incertezza rispetto alla precisa identificazione del meme. In effetti, non è chiaro se il meme sia un’idea, una teoria scientifica, un pezzo di tale teoria, una religione o un precetto religioso, o tutte queste cose insieme. Un meme potrebbe essere anche il modo di camminare di un individuo od il suo modo di vestirsi. In assenza di elementi che ne delimitino la dimensione, al limite, l’intera cultura di un popolo potrebbe essere definita come un solo gigantesco meme.

Cullen (2) nel suo saggio del 1998, dal titolo che suona provocatorio: “Ecologia parassitaria ed evoluzione delle religioni”, precisa che i memi somigliano ad un’infezione, o meglio a dei parassiti nel loro modo di diffondersi da un individuo all’altro. Di nuovo un’inquietante similitudine. Ancora più inquietante è l’articolo di Robert Finkelstein dal titolo “Un compendio memetico e una panoramica della memetica militare” (3), nel quale si afferma: “Se la memetica può essere definita come disciplina scientifica, il suo potenziale valore militare include applicazioni che coinvolgono operazioni di informazione per contrastare memi prodotti dagli avversari, riducendone il numero e riducendo allo stesso tempo l’ostilità dell’avversario sia nella sua cultura militare che civile, vale a dire, potrebbe avere la capacità di ridurre la probabilità di guerra o di sconfitta aumentando la probabilità di pace o vittoria”. Ci troviamo, dunque, di fronte a tecniche di manipolazione di massa, che animano strategie militari, rimbalzano nelle tecniche virali di vendita e finiscono nella gestione della diffusione delle informazioni da parte dei mass media, e oggi anche nella “memetica” dei social network.

Per tornare al “marketing virale”, osserviamo che, eleggendo i virus a modello esemplare per aumentare “naturalmente” la potenzialità delle strategie di vendita, diventa necessario elaborare, come se fossimo in un laboratorio biologico, virus mentali particolarmente adatti ad andare in giro e radicarsi saldamente nella testa delle persone. Alcuni teorici di queste procedure propongono tecniche di indagine di mercato innovative fondate sul potere dei principi darwiniani della sopravvivenza del più adatto. Ecco cosa preconizzano gli esperti di marketing virale:

1. ignorare l’utilità effettiva del prodotto e concentrarsi interamente su ciò che davvero si vende: l’identità del brand o dell’idea;

2. considerare le persone come puri vettori potenziali per un nuovo tipo di malattia, il brand in questione, piuttosto che come agenti razionali con tratti psicologici complessi;

3. non agitarsi nella spasmodica ricerca di prodotti che si pensi le persone desiderino (macchine, bibite, prodotti di largo consumo), quanto dare via libera a qualcosa che è progettata, impacchettata, denominata e pubblicizzata in modo che la sua realtà memetica la diffondi come un contagio;

4. usare il linguaggio giusto, una strategia comunicativa adatta allo scopo e al consumatore.

5. questa è la ricetta per ingegnerizzare prodotti e idee che il pubblico preferirà e apprezzerà, pur senza l’esplicita attività di una valutazione razionale.

Ianneo (10) ci ricorda che “Qualsiasi cosa desideriamo in questo nostro mondo ipersofisticato e terrorizzato, alla fine è un fenomeno o prodotto memetico, un grumo di memi materializzato in un oggetto hi-tech, un indumento di tendenza, un cosmetico indispensabile, un corpo nuovo, snello e accattivante, un’immagine memetica di noi stessi che conquisti un posto e un ruolo a sua volta memetico e vincente”. Interessante l’uso dell’aggettivo “terrorizzato” scelto per descrive una delle caratteristiche delle società occidentali in epoca “pre-covid”.

Ora cerchiamo di approfondire le nuove tecniche marketing, chiamate genericamente non-conventional marketing. Ci troviamo subito di fronte a terminologie militari e biologiche, anzi direi a terminologie di guerra microbiologica. Titoli di articoli come: “Infezione controllata! Diffondere il messaggio del brand attraverso il marketing virale” (4) e definizioni del tipo marketing di guerriglia (5), marketing di imboscata (6), marketing nascosto (7), di ovvia derivazione militare, fanno il paio con concetti del tipo “come creare un’epidemia” e “come diffondere un virus”, nel senso, ovviamente, di un marketing innovativo e di successo. Questi concetti sono espressi con stupefacente candore nel citatissimo articolo di Kaplan e Haenlein (8), nel quale si identificano 3 punti cardine per avere successo nel “creare un’epidemia”: 1) scegliere i messaggeri: esperti di mercato, social network e venditori, 2) scegliere il messaggio: memorabile e interessante, 3) L'ambiente: il numero di Dunbar e un pizzico di fortuna. Il numero di Dunbar è 150 e rappresenta il numero massimo di persone con cui ognuno di noi può avere relazioni stabili durante la sua vita.

Il “cuore” dell’ “ideavirus”, cioè della trasmissione dell’epidemia, sono gli sneezer, gli starnutatori, come spiega bene l’immagine tratta dal libro di Godin (9) riprodotta qui di seguito. Gli starnutatori, secondo Godin, sono tanto importanti da dover essere classificati con estrema attenzione. Ne esistono di due tipi: 1) gli starnutatori promiscui (possono essere motivati dal denaro o da altri incentivi e sono raramente tenuti in grande considerazione come opinion leader, ma se sono abbastanza promiscui possono essere estremamente efficaci), 2) gli starnutatori potenti (non possono essere comprati e ogni volta che uno di loro accetta un beneficio in cambio della diffusione di un virus, il suo potere diminuisce).

Godin, S. (2001). Unleashing the Ideavirus (9).

Se pensiamo alla trasposizione senza mediazioni di questi concetti al mondo dell’informazione, avremo un’idea piuttosto chiara di come si può razionalizzare la diffusione di qualsiasi meme e la susseguente manipolazione delle persone. Evidentemente, il limite di tali tecniche è solo dettato dalla “professionalità” dell’operatore e dalla potenza degli strumenti di diffusione delle notizie. Se identifichiamo gli “starnutatori promiscui” nei giornalisti, qualche politico e qualche scienziato di secondo piano e individuiamo, invece, negli “starnutatori potenti” personaggi di primissimo piano delle istituzioni internazionali e della scienza ecco che appare più chiaro lo sconcertante quadro della realtà che oggi viviamo, una realtà distopica nella quale il virus che si diffonde nel mondo non è un microrganismo, ma un meme.

In questo panorama, non proprio tranquillizzante, non poteva mancare la “Chiesa virale”. Raccomandiamo di visitare l’account Twitter @The_ViralChurch, la cui frase in esergo è “Equipaggiare i santi per adempiere al grande compito di un mondo online”. Vi assicuro che vi troverete argomentazioni estremamente suggestive.

Sul sito web http://www.bedouinsoul.com/post.cfm/viral-church, oggi non più attivo, si poteva leggere questa definizione di virus: “Qual è il virus? È Gesù stesso, in noi e rivelato al mondo attraverso di noi. Come si diffonde il virus? Come ogni altro virus, si diffonde attraverso il contatto personale o "starnutendo" sulle persone”. Evidentemente Godin ha fatto proseliti anche in ambienti non strettamente legati alla vendita di prodotti o brand, ma comunque interessati alle tecniche efficaci di marketing

Sullo stesso sito si trovavano le motivazioni per assicurare la massima diffusione di un’idea: “Cosa rende virale un'idea? Nessuno diffonde un'idea a meno che: 1) non la capisca, 2) non desideri diffonderla, 3) non creda che diffondendola aumenterà il suo potere (reputazione, guadagni, amicizie) o la sua tranquillità, 4) non ritenga che i benefici che si ottengono dalla sua diffusione siano superiori allo sforzo necessario per diffonderla”. Come si vede un approccio squisitamente utilitarista traslato alla salvezza dell’anima.

Mentre i “memi” descrivono cosa si sta diffondendo, la “viralità” descrive perché i “memi” si diffondono. La viralità è definita come la tendenza di un consumatore a diffondere informazioni su di un prodotto attraverso le sue reti sociali (non necessariamente telematiche), così come un virus si diffonde da una persona all’altra. Il marketing virale utilizza le reti relazionali del consumatore per orientare all’acquisto di un bene o di un servizio creando i presupposti di una rapida moltiplicazione dell’informazione, che procede in forma esponenziale esattamente come la moltiplicazione di un virus in un ambiente a lui favorevole.  

Se queste sono le tecniche usate per trasferire qualsiasi meme nelle menti degli individui, indipendentemente dalla sua validità, razionalità e rispondenza alla realtà fattuale, quali sono i presupposti su cui tali tecniche sono basate? Galimberti (11) ci ricorda che viviamo in un mondo obbligato a prendere drammaticamente atto del fallimento dell’illusione della modernità, quella stessa illusione che pretendeva di dominare ogni cosa ed ogni processo, modificandoli secondo il nostro volere. Da questa consapevolezza si genera un’evoluzione paranoide, che spinge a proteggersi dal ricorrere del divenire e dall’intrusione di eventi imprevedibili nella nostra vita. Per difendersi dalla vita stessa, imprevedibile per definizione, ecco scomparire le mediazioni dell’Io e dell’individualità, fenomeno che spinge a ripercorrere rituali sociali attraverso il ritmo coattivo della ripetizione, impoverendosi affettivamente e cercando rifugio nel narcisismo e nei suoi derivati collettivistici. Gli effetti di questo meccanismo causano la perdita della capacità di elaborare sistemi ed ambienti simbolici, nei quali esercitare il necessario esercizio della formazione dell’identità e dell’indipendenza culturale e concettuale. Tali sistemi, oggi profondamente alterati sono, paradossalmente, divenuti l’ambito preferenziale della de-simbolizzazione del mondo, religioni comprese, per via della loro sottomissione all’industria della comunicazione e dell’informazione.

Ecco dunque i presupposti su cui si basa il successo dell’informazione virale: decostruzione dell’illusione positivistica della volontà di potenza di un’umanità che tutto può controllare e tutto può modificare a suo piacimento; nascita di un bisogno eterodiretto di ristabilimento di un’illusoria capacità di controllo espressa da individui resi fragili e privati di riferimenti simbolici; affermazione di pulsioni narcisistiche come antidoto all’effetto destabilizzante dell’incursione del divenire nelle nostre esistenze. In questo contesto gli individui soffrono pressioni contradittorie: da una parte sono annullati in quanto tali e ricompresi in un corpo sociale che ne nega l’identità e dall’altro sono spinti a esercitare le scommesse dell’agire attraverso una falsa proiezione su obiettivi generati al di fuori della loro capacità di controllo - sia razionale che emotivo, come meccanismo di ristabilimento identitario. E’ ovvio che su soggetti in equilibrio tanto instabile la paura divenga, più che mai, un potente strumento di circolazione di “memi”.

Roberto Esposito (12), in un suo libro del 2002, profeticamente mise in luce la richiesta di immunizzazione che sta caratterizzando tutti gli aspetti della nostra esistenza, la cui connotazione principale è ormai quella di dover convivere con minacce sempre più pressanti e diffuse. L’immunizzazione dal diverso, dall’estraneo, dal portatore, reale o immaginario, di patologie (nel senso più ampio del termine che comprende patologie sociali e patologie cliniche) ci fa chiudere sempre più all’interno di confini che reputiamo essere protettivi, ma che in realtà ci escludono dalle dinamiche sociali ed affettive della vita. Questa “vaccinazione” contro i pericoli ha un prezzo altissimo: una presunta immunizzazione necessita dell’immissione preventiva e controllata dell’agente patogeno nel corpo sociale, con effetti impossibili da prevedere e tantomeno da padroneggiare. Questi presupposti lasciano terreno libero perché attecchiscano “mediemie” non meno pericolose delle epidemie e perché si realizzino, attraverso la gestione della paura, scenari distopici in cui il controllo sociale è demandato alla biopolitica, nell’accezione data a questo termine da Foucault (13).

 

Bibliografia

  1. Dawkins, R. (1976). The selfish gene. Chapter 11th, Oxford University Press, New York.
  2. Cullen, B. (1999). Parasite ecology and the evolution of religion. 1999):" The Evolution of Complexity"(Kluwer, Dordrecht).
  3. http://citeseerx.ist.psu.edu/viewdoc/download?doi=10.1.1.731.4497&rep=rep1&type=pdf
  4. Dobele, A., Toleman, D., & Beverland, M. (2005). Controlled infection! Spreading the brand message through viral marketing. Business Horizons, 48(2), 143-149.
  5. Levinson, J. C., & Hanley, P. R. J. (1986). Guerrilla Marketing. Tape Data Media.
  6. O'sullivan, P., & Murphy, P. (1998). Ambush marketing: The ethical issues. Psychology & Marketing, 15(4), 349-366.
  7. Roy, A., & Chattopadhyay, S. P. (2010). Stealth marketing as a strategy. Business Horizons, 53(1), 69-79.
  8. Kaplan, A. M., & Haenlein, M. (2011). Two hearts in three-quarter time: How to waltz the social media/viral marketing dance. Business horizons, 54(3), 253-263.
  9. Godin, S. (2001). Unleashing the Ideavirus  (Hyperion, 2001). http://www.ideavirus.com/
  10. Ianneo, F. (2005). Memetica. Genetica e virologia di idee, credenze, mode, Castelvecchi, Roma.
  11. Galimberti, U. (2007). L' ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. Feltrinelli editore.
  12. Esposito, R. (2002). Immunitas. Protezione e negazione della vita. Einaudi editore.
  13. Foucault, M. (2015). Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979). Universale Economica Feltrinelli.

 

Pubblicato su http://www.dmi.unipg.it/mamone/sci-dem/nuocontri_3/dumontet_infod.pdf