IL PIANO CHE NON C’E’

IL PIANO CHE NON C’E’

Gianni De Falco, presidente Ires Campania, coordinatore AIM (Alleanza Istituti Meridionalisti)

 

white bookGoverno Conte ter o altro esecutivo non vi è dubbio che l’approccio verso il Sud dovrà cambiare. Perché altrimenti l’Italia non si salva. Al di là della personalizzazione dello scontro tra Conte e Renzi, in realtà si deve cercare di recuperare quello che dovrebbe essere il tema reale della crisi.

Un inesistente piano Paese, che non sia il risultato di una sommatoria di progetti, ma piuttosto una idea di quello che dovremo essere da qui ai prossimi anni (un Piano strategico). Nascondersi dietro a progetti neanche ancora cantierabili o alla distribuzione percentuale delle risorse è un modo per confondere le carte.

Qui il tema vero è capire chi dovrà produrre beni e servizi nei prossimi anni per riprendere una crescita economica necessaria per pagare i debiti che in questo momento stiamo caricando sulle prossime generazioni.

 

 

E questa idea di Paese “futuro” non mi pare traspaia dalle pagine e dai documenti disponibili. Anzi, le linee di intervento che sembrano venire fuori ripercorrono quella filosofia che ci ha portato a tassi di crescita contenuti e certamente insufficienti.

Per esempio quello di puntare per la logistica a Genova e Trieste o, per quanto attiene alle infrastrutture, di lasciare il Paese diviso in due, in uno con l’Alta velocità vera che va al di sopra dei 250 chilometri orari, ed in un altro dove si “aggiustano” le linee per puntare ad un’Alta velocità farlocca.

Anche per quanto attiene il “tipo” di sviluppo si indirizza il sud (come abbiamo già scritto) a puntare su agricoltura e turismo pur essendo chiaro che le esigenze di occupazione del Mezzogiorno non potranno essere soddisfatte da tali settori. Quindi conseguentemente si condanna il Sud alla emigrazione e allo spopolamento. Poco si dice, invece, sull’uguaglianza dei diritti di cittadinanza, e quindi sul recupero dei livelli essenziali di prestazioni al posto della spesa storica. In particolare stupisce il silenzio sulle Zes, che dovrebbero rappresentare la struttura portante dello sviluppo del Mezzogiorno, che sembrano dimenticate. Avrebbero potuto diventare il centro del progetto di un nuovo Paese, che cambiasse il baricentro produttivo dal “tutto Nord”  a “Nord-Sud”.

In realtà la bussola è rimasta quella che segna sempre Nord, d’altra parte l’attrazione dei magneti è tale che sembra difficile farla cambiare. Ed anche quando si parla di valorizzazione del turismo non si può pensare che questo possa rappresentare il motore per la ripresa di un territorio con 21milioni di abitanti.

Ma al di là di tale precisazione, nulla che possa far comprendere come si possono moltiplicare le presenze limitate nel Sud, come aumentarle in tempi brevi passando dagli 80milioni, poco più del solo Veneto, per raddoppiarle (circa 160mila) in un arco di tempo massimo di 5 – 10 anni.

Nulla, nessuna proposta di Zes turistiche che possano attrarre investimenti dall’esterno, le grandi catene alberghiere; nulla, di grandi eventi indispensabili per rilanciare il territorio, né parchi naturalistici o di divertimenti che costituiscano elementi attrattivi. Né potrà bastare la recente scelta di Procida, città italiana della cultura per il 2022, a bilanciare tanto vuoto di senso.

Solo tante buone intenzioni, ma tutte insufficienti.

Non sarà facile proporre un vero programma per il Mezzogiorno, restiamo perduti su temi come l’insufficienza di una classe dirigente inadeguata, nodo gordiano e tuttavia elemento del problema, o l’idea di uno sviluppo dal basso con patti territoriali che hanno alimentato solo rivoli di consenso, ma che hanno contribuito poco allo sviluppo per cui erano stati immaginati, forse per una ideologia di base, contraria alle grandi multinazionali estere o anche nazionali, viste come predatrici del mordi e fuggi. Ideologia non tanto lontana però da una amara verità.