Il ministro Cingolani e il provincialismo culturale.

Il ministro Cingolani e il provincialismo culturale.

Stefano Dumontet, docente Università Parthenope. Comitato Tecnico Scientifico Ires Campania

 

Nei giorni scorsi il ministro Cingolani ha espresso alcune idee su come dovrebbe essere strutturata la nuova educazione scolastica delle giovani generazioni. Dalle parole di Cingolani appare evidente che, a suo avviso, la scuola italiana sarebbe inutilmente gravata dallo studio di materie storico-letterarie a scapito dell’informatica, della logica computazionale, degli algoritmi, ecc.

Per essere competitivi nel mondo moderno, non diciamo post-pandemico perché a quanto pare di capire le epidemie non finiranno mai più, bisogna incrementare le competenze digitali, allineandosi a tutti gli altri paesi sviluppati. Questo modo di vedere è viziato da un provincialismo pernicioso che oscura, evidentemente per ignoranza strutturale, la storia e le caratteristiche del nostro paese.

Appare in verità sorprendente che un ministro italiano possa esprimere pareri tanto grossolanamente lontani dalla realtà. Nessuno vuole tacere dell’ormai cronica incapacità della scuola italiana nel formare cittadini consapevoli, consci del portato culturale del loro paese, capaci di esprimersi correttamente nella lingua nazionale (sia scritta che parlata) e in grado di esprimere le più elementari abilità matematiche.

Il disastro, che è sotto gli occhi di tutti, deriva dalla sistematica distruzione della scuola pubblica, portato avanti con caparbietà, degna di miglior causa, ormai da decenni. Una distruzione declinata attraverso il cronico sottofinanziamento della scuola, il caos gestionale, le riforme insensate che si sono susseguite negli anni (una per tutte quella della renziana “buona scuola” con il suo inutile corollario dell’alternanza scuola-lavoro), il depotenziamento sociale e salariale del ruolo dei docenti, la continua ristrutturazione del ministero competente, che prima accorpa scuola, università e ricerca scientifica, poi si scorpora in due ministeri per poi accorparsi di nuovo e di nuovo separarsi. Analogo destino ha subito l’università, ridotta ormai ad una sorta di secondo liceo, ma solo in ordine di tempo rispetto al primo.

Quello che Cingolani non sa, o fa finta di non sapere, è che lo squallido panorama formativo italiano, insieme all’ancor più squallido risultato delle politiche formative, non si è verificato per caso. Cingolani lamenta che nella scuola italiana si insegnano ripetutamente cose inutili, come le guerre puniche, ad esempio, ma non fa cenno al programma di costante ristrutturazione di impianti formativi che erano all’attenzione del mondo per la loro qualità (vedi la scuola primaria) e che oggi sono alla retroguardia. Nel 2017 l’Italia destinava il 3,8% del PIL nell’istruzione (media europea 4,6%), con una diminuzione di 0,8 punti percentuali rispetto al 2009. In termini assoluti, nel 2017 sono stati spesi circa 66 miliardi di euro, mentre nel 2009 i miliardi erano 72. Questo ci pone all’ultimo posto in Europa in rapporto alla spesa pubblica quintultimo se si rapporta la spesa in istruzione con il Pil.

Forse questi “risparmi” sono stati realizzati grazie alla diminuzione delle nozioni inutili impartite nelle scuole, guerre puniche comprese?

L’atteggiamento provinciale del ministro Cingolani si esplicita nell’esortazione a fare come fanno “tuti gli altri”, cioè investire nelle nuove tecnologie seguendo le tendenze del momento. Ciò che bisognerebbe fare è esattamente il contrario di quello che Cingolani propone. Invece di confonderci nella massa operando a livello di meri esecutori di tecnologie sviluppate altrove, bisognerebbe fare ciò che nessuno è in grado di fare, perché legato alla cultura, alle tradizioni e alla ineguagliabile civiltà italiana. L’Italia è stata per lunghissimo tempo la nazione del mondo più ammirata per le sue caratteristiche uniche e irripetibili. Tali caratteristiche derivano dalla sua millenaria storia, dal possedere circa il 40% di tutti i giacimenti culturali del mondo, dall’avere espresso i più grandi stilisti, i più gradi designer industriali, di essere stata l’avanguardia culturale dell’occidente e tra i paesi che hanno espresso, pur tra mille difficoltà, un’avanguardia scientifica seconda a nessuno

Oggi tutto questo non conta più, contano le guerre puniche, insegnate inutilmente. Bisognerebbe che qualcuno ricordi a Cingolani che l’Italia era riuscita a conquistarsi un posto tra le nazioni più industrializzate del mondo in modo del tutto originale, aveva espresso una sua peculiare “via al capitalismo”, aveva sviluppato una comparto industriale moderno e competitivo basato sulle piccole e medie imprese con la collaborazione di maestranze e imprenditori, aveva un suo sistema bancario. Tutto questo “all’italiana”, basandosi sulla millenaria storia del nostro paese, sulla nostra cultura unica e inimitabile, sulle nostre tradizioni e sulla nostra capacità innovativa, figlia della nostra storia. Oggi cosa rimane di tutto questo? Praticamente nulla. La de-industrializzazione del paese non è avvenuta a causa del tempo perso dagli italiani a studiare le guerre puniche. La de-industrializzazione del paese e la svendita dei suoi asset strategici - come energia, trasporti, infrastrutture informatiche – è avvenuta con la complicità dei politici e dei tecnici chiamati a “salvare l’Italia” e che l’hanno invece via via scientemente demolita, impedendo l’espressione della creatività che tutto il mondo ci riconosceva e che Cingolani fa finta di ignorare. Ebbene sì, questa creatività invidiataci da tutti era basata anche sullo studio delle guerre puniche. Oggi sono gli atteggiamenti provinciali dei sedicenti tecnologi che riportano l’Italia ai tempi dei “fori muscosi e degli atri cadenti”. Speriamo che qualcuno ricordi ancora da dove provengono queste parole.