Un programma per un progetto

di Ugo Leone

Perché il Mediterraneo? Perché un osservatorio? Perché un osservatorio sul Mediterraneo?
Sono già molti, da vari versanti, ad occuparsi del Mediterraneo, ma è particolarmente importante farlo a Napoli la cui “centralità” geografica tra le due sponde è abbastanza indiscutibile. È importante, però, anche farlo con uno specifico.
Uno specifico che si può facilmente immaginare se si riflette anche superficialmente sui soggetti promotori di questo Osservatorio: la Fondazione Di Vittorio, la Cgil Campania e di Napoli, l’Ires Campania.

Partendo da questi soggetti è abbastanza evidente che lo specifico privilegiato è quello che ruota intorno ai temi dello sviluppo e del lavoro. Sono dunque, essenzialmente questi -ma non solo- i temi che caratterizzano le modalità e gli obiettivi della Osservazione.
Questa osservazione, cioè la raccolta di elementi per delineare scenari, mai può prescindere dalle conoscenze della storia e della geografia. Meno che mai ciò è possibile per il Mediterraneo perché, come ha scritto quell’attento studioso e conoscitore del Mediterraneo che è Pedrag Matveievic, “lungo le coste del Mediterraneo passava la via della seta, s’incrociavano le vie del sale e delle spezie, degli olii e dei profumi, dell’ambra e degli ornamenti, degli attrezzi e delle armi, della sapienza e della conoscenza,  dell’arte e della scienza. Gli empori ellenici erano ad un tempo mercati e ambasciate. Lungo le strade romane si diffondevano il potere e la civiltà. Dal territorio asiatico sono giunti i profeti e le religioni. Sul Mediterraneo é stata concepita l’Europa”.
D’altra parte, gli intrecci propri del Mediterraneo non corrono solo longitudinalmente, da occidente ad oriente, corrono anche nel senso dei meridiani, da Nord a Sud. Come ha scritto Edgard Morin, “c’è un Mediterraneo del Sud che è a sua volta il Nord di un continente che ha rappresentato la culla dell’umanità. Le terre dell’Europa mediterranea sono penisole protese verso le coste del Maghreb. E il Maghreb è l’altra faccia del ‘mare nostro’, un mondo solo in apparenza diverso, che ha visto dispiegarsi la grande civiltà arabo-islamica”.
È per tutti questi motivi che 2000 anni fa i paesi del mediterraneo erano sede della centralità dello sviluppo economico e sociale. Ma, se questo è vero, perché oggi, come ha scritto nel 1968 il geografo Pierre George quei paesi “sono rimasti una terra di arcaismi sia in Europa (in Spagna, nel Mezzogiorno d’Italia, nella parte meridionale della penisola balcanica) sia sulla costa occidentale dell’Asia, sia nel Maghreb”.?
Pur senza cadere in semplicistici determinismi, la storia e la geografia ci aiutano e ci aiuta un storico - Fernand Braudel - a  dare una prima possibile risposta quando, dopo avere “attirato l’attenzione sulla funzione troppe volte trascurata che la montagna ebbe nella composizione non soltanto dei paesaggi mediterranei, ma anche nella vita mediterranea”, ha sottolineato che, a ben guardare,  «c’é qualcosa di paradossale nel mondo mediterraneo. Dite: ‘la montagna’; e l’eco dovunque risponde: ‘austerità, asprezza, vita arretrata e popolazione rada’. Dite: ‘la pianura’; e la medesima eco risponderà: ‘abbondanza, facilità, ricchezza, dolcezza di vita’». Tuttavia le pianure mediterranee, scrive ancora Braudel,  “per molto tempo non furono occupate dall’uomo che in modo imperfetto e fugace” e sono state utilizzate al massimo solo nel XX secolo con il completamento delle opere di bonifica idraulica.
Tuttavia,  come la conoscenza della storia dei luoghi ci autorizza a fare, possiamo ben dire che duemila anni fa, e già da più tempo, il centro dello sviluppo economico era saldamente fissato nel bacino del Mediterraneo, “culla della civiltà occidentale”; sede di residenze, di produzione di alimenti e merci, di traffici, di cultura. Perché, allora, negli ultimi 1500 anni quel centro si é andato progressivamente e decisamente spostando verso l’Europa continentale?
Si può azzardare un risposta dicendo che lo spostamento della centralità é avvenuto di pari passo con la trasformazione della società da agricola in industriale, da rurale in urbana.
I paesi del Mediterraneo hanno osservato passivamente questi mutamenti sostanzialmente perché non potevano continuare ad avere nel loro ambiente modi di vita, modi e ritmi di produzione, superati dai tempi, in un contesto in continuo mutamento sino alla sconvolgente rivoluzione industriale; né potevano valorizzare quell’ambiente in modo moderno non avendo le risorse che il nuovo modello di sviluppo imponeva (carbone e ferro) o, in taluni casi e successivamente, disponendone, ma senza essere in possesso delle tecnologie e della forza economica e politica necessarie per utilizzarle in proprio.
Ciò perché con le trasformazioni che prima ricordavo, i “bisogni” sono mutati e i paesi che hanno potuto e saputo soddisfarli più compiutamente e rapidamente sono passati all’avanguardia dello sviluppo economico e sociale.
Potremmo dire ancora, con una annotazione forse un po’ più rischiosa, che lo spostamento della centralità é avvenuto con il passaggio da un’ economia e da un modo di vita in discreta simbiosi con l’ambiente naturale ad un’ altra e ad un altro in progressiva contrapposizione a quell’ambiente.
In sintesi, potremmo anche dire che il primo tipo di sviluppo era “sostenibile” in termini di utilizzazione delle risorse e di produzione di rifiuti ed era compatibile con le caratteristiche naturali dell’ambiente in cui si realizzava. Via via che i bisogni sono mutati e hanno chiesto beni diversi per essere soddisfatti i quali avevano bisogno di risorse diverse per essere prodotti e diversi modi di produzione per essere realizzati, si sono cominciate a gettare le basi per la progressiva insostenibilità e incompatibilità.
Oggi sono ben diverse le possibilità di realizzare lo sviluppo. Le “chiavi” che ne aprono le porte sono più numerose e sono state anche usate. Non sempre per aprire le porte giuste, ma sono state usate
Soprattutto sono state usate lungo la pianeggiante fascia costiera -urbanizzata ormai per oltre il 90% della sua estensione- dove vivono oltre 500 milioni di persone cui si aggiungono ogni anno più di 200 milioni di turisti. L’uso di queste differenti chiavi, tanto per restare nella metafora, ha aperto altre porte  sulla via dello sviluppo o, se si preferisce, della “crescita economica” e vi ha fatto passare molta più gente di quanta non riuscisse a passarne prima attraverso le porte del sottosviluppo.
Ma, paradossalmente, questo ingresso ha anche aperto una nuova falla nella sostenibilità planetaria della crescita economica.
Oggi si parla ripetutamente – sin troppo secondo me – di sviluppo sostenibile.
Con riguardo al Mediterraneo è  opportuno chiedersi quale rapporto ci può essere tra sviluppo realizzato in modo sostenibile e il Mediterraneo. E, ancora, è interessante misurare se è  mai stato “sostenibile” il modello di sviluppo mediterraneo. E, facendo un passo avanti, è utile verificare se può tornare ad esserlo in modo anche economicamente produttivo.
Tanto per cominciare:  era, tutto rose e fiori prima della rivoluzione industriale?
In realtà é lecito insinuare qualche dubbio sulla sostenibilità “totale” del primo modello di sviluppo.
Karl-Wilhelm Weeber nella sua ricostruzione dei problemi ecologici nell’antichità fornisce a questo riguardo elementi molto interessanti. E Braudel, con riferimento al diboscamento si chiede addirittura se la rarefazione delle foreste resa soprattutto intensa per la costruzione di flotte marine, non sia stata una “delle tante ragioni della decadenza del mediterraneo, nel Cinquecento e ancor più nel Seicento”.  Insomma c’è più di un elemento per mettere in discussione la totale sostenibilità del passato modello di sviluppo.
Comunque, pur con i necessari ridimensionamenti dei miti di un passato bucolico e incontaminato, si può ben dire che l’agricoltura e l’artigianato, così come le seconde case di imperatori e patrizi romani lungo il litorale flegreo della Campania o di pasha e califfi,  erano sicuramente compatibili con le amenità ambientali di quel litorale e con quelle disseminate lungo l’arco costiero mediterraneo.
Anche per questo, se si considera che a dire montagna l’eco rispondeva nel modo di cui ha scritto Braudel, si capisce ulteriormente perché  uomini e attività si siano addensati, ma soprattutto si addensino oggi (dopo aver vinto la paura dei saraceni e i problemi della malaria) prevalentemente lungo la costa.
Quelle amenità naturali  alle quali si é aggiunta una eccezionale quantità di prodotti della cultura materiale, costituiscono una risorsa, un serbatoio di quelle che si definiscono “risorse ambientali” di cui é particolarmente ricco per varietà qualità e quantità, il Mediterraneo col complesso dei paesi che si affacciano su questo mare e, tra questi, soprattutto il Mezzogiorno d’Italia.
Queste risorse,  sino ad oggi hanno alimentato solo più o meno consistenti flussi turistici. Ma possono essere la molla per chiudere il cerchio della sostenibilità.
Sino ad oggi per il modo in cui lo sviluppo economico è stato interpretato nelle due rive, la caratteristica della sostanziale insostenibilità soprattutto nella riva nord è stata evidente. Basta seguire l’itinerario che lo ha caratterizzato: industria di base/inquinamento ambientale/utilizzazione di risorse non rinnovabili/ crescente dismissione industriale/crescita della disoccupazione/necessità di bonificare molti siti contaminati. È uno sviluppo impostato su chiari elementi di insostenibilità in quanto non riproducibile e ad impatto fortemente negativo sull’ambiente.
Da oggi e proiettandosi verso domani, partendo da questa constatazione è legittimo proporsi di lavorare al Mediterraneo come “laboratorio di sostenibilità”?
Questa verifica è uno dei compiti che ci proponiamo.
E comincerei a farlo rispondendo affermativamente alla domanda che ponevo se fare dei paesi mediterranei  un laboratorio di sostenibilità significa puntare su uno sviluppo che, prevalentemente basato sull’uso di risorse rinnovabili, sia anche per ciò durevole e riproducibile.
Di queste risorse il Mediterraneo –dal Mezzogiorno d’Italia ai Paesi della sponda Sud- è un ricco serbatoio. Lo sono il sole e il vento tra le fonti di energia; lo sono le amenities che prima citavo; possono esserlo persino le montagne ricordate da Braudel; lo sono molte risorse “immateriali” variamente sintetizzate nel concetto di “identità” mediterranea.
Non sono pochi quanti considerano la disponibilità di amenities e identità elementi per un vantaggio competitivo. Per cui un contributo alla soluzione del problema, potrebbe consistere nel recupero dell’”eminenza” perduta la quale, a sua volta, consisterebbe nelle caratteristiche ambientali e nei comportamenti sociali propri dell’area e dei suoi abitanti.
In conclusione si potrebbe dire, parafrasando Raffaele La Capria, che c’è stata una “bella giornata” dovuta soprattutto ad una considerevole armonia con la natura. Allora le capitali erano Babilonia, Menfi, Atene, Roma. Poi i rapporti si sono progressivamente rovesciati e il Nord dell’efficienza e dell’attivismo ha avocato a sè l’antico primato.
Tuttavia  le premesse di quell’armonia sono rimaste immutate in molti aspetti; in altri si sono arricchite dei prodotti materiali di una lunghissima presenza umana e costituiscono una base per la costruzione di un modello di sviluppo con le caratteristiche di rinnovabilità e riproducibilità nel tempo proprie del concetto di sviluppo sostenibile.
Né va dimenticato che dire Mediterraneo, oggi ancora più di ieri, non significa fare riferimento ad una realtà omogenea. Ma, al contrario, ad una realtà diversificata al suo interno e diversa dalle rappresentazioni che se ne fanno.
Ancora oggi – sottolinea Matveievic in un’intervista a l’unità del 2 luglio 2004 – “è incredibile, ma c’è una rappresentazione ancora piena di colori, piacevole, soprattutto in prossimità dell’estate, fatta tutta di spiagge, tranquillità paradisiache, con pochissimo pubblico, insomma tutto il contrario di ciò che realmente è. Dall’altra parte c’è un Mediterraneo che soffre, ma non solo nella sponda sud orientale;  anche  nelle coste del nord accanto agli yatch ci sono i resti delle zattere dei clandestini, dei gommoni, delle mafie, degli scafisti,….che da una costa di povertà ma ricca di giovani invadono una costa ricca di benessere e povera di figli, piena di vecchi. … in troppi offrono al Mediterraneo un grande passato ma lui ha bisogno di un presente e, se possibile, di un futuro”.
Questo futuro deve essere basato sui principi della sostenibilità e della compatibilità ambientale. Cioè della integrazione in un ambiente che ha costituito in passato e può costituire oggi e domani una risorsa. Non per continuare a vivervi alle condizioni di duemila anni fa, ma per valorizzarlo in modo moderno.
Oggi l’aggettivo mediterraneo non è solo indicativo di un’area geografica, ma è “ancor più identificativo di un compendio storico il cui paesaggio è il luogo della memoria e del tempo”. (Francesco Cetti Serbelloni).
La memoria e il tempo, la storia e la geografia del Mediterraneo sono il punto di partenza, la base su cui ricostruire uno sviluppo durevole e coinvolgente per le popolazioni presenti e quelle a venire.
Non per il recupero della perduta centralità, che sarebbe un falso obiettivo, ma perché è nell’interesse non solo dei paesi mediterranei, ma anche dell’Europa continentale (ri)scoprire il ruolo anche strategicamente importante di un’apertura al Mediterraneo in alternativa all’appiattimento geopolitico e geoeconomico  su Atlantico e oltre Atlantico.
In questo contesto nasce e si propone di crescere il nostro Osservatorio e credo che i quesiti che proponevo siano quelli che principalmente richiedono risposte per stilare un programma di lavoro che voglia puntare su un osservatorio che non si limiti ad “osservare” le dinamiche, ma si proponga anche di essere propositivo ed operativo.
Quando, due mesi fa, questo organismo è stato varato, gli enti che lo hanno ideato dissero che “la scelta di una sede napoletana per l’Osservatorio è riconducibile alla vocazione storica della città ad essere una grande capitale che ha fatto del suo porto il vero crocevia delle relazioni culturali e commerciali. Relazioni che passando da Marsiglia a Barcellona per arrivare a Tunisi, Tangeri e Algeri creano un’area omogenea tra Europa e Africa e quindi un punto di riferimento per tutto il Mediterraneo occidentale”.
Per la Campania, per Napoli, oggi è importantissimo conoscere ed interpretare il Mediterraneo; esiste una pressante necessità nei confronti dello sviluppo e della crescita del Meridione di analizzare e trovare le giuste risposte alle problematiche che si diramano da quel grande semicerchio che si apre davanti alle coste italiane, nel quale convivono accanto alla stabilità e alla prosperità dell’Unione Europea, la crisi israelo-palestinese, la crescita del nord Africa vicino al dinamismo problematico della Turchia, fino all’interrogativo non risolto dell’area dei Balcani.
Tutto ciò è necessario per la Campania e per Napoli. Lo è in misura pressoché  uguale per il Mezzogiorno nel suo complesso che deve realisticamente puntare su uno sviluppo, per così dire “strabico”. Con un occhio, cioè, rivolto a Bruxelles e l’altro rivolto verso la sponda sud del Mediterraneo.
Oggi questo ruolo il Mezzogiorno lo svolge soprattutto come punto di sosta delle disperate migrazioni da sud verso nord. È, più o meno, quanto avviene nelle migrazioni degli uccelli verso terre migliori.
Qualche anno fa fu motivo di grande soddisfazione registrare che le cicogne avevano nidificato a Battipaglia.  Sarà motivo di ancor maggiore soddisfazione registrare che il Mezzogiorno –ma l’Italia nel suo complesso- si sarà trasformata da area di transito verso un “clima” migliore delle migrazioni nord africane o vicino orientali in area di soggiorno. Ma soprattutto sarà il risultato atteso quello di fermare le migrazioni non rigettando in mare gli immigrati o rispedendoli verso i paesi d’origine,  bensì perché i potenziali emigranti avranno avuto modo di constatare che il “laboratorio mediterraneo” avrà prodotto il necessario per lavorare in proprio dove si vive.