Un paese troppo lungo
Giorgio Ruffolo, Un paese troppo lungo,
Einaudi, 2009, € 18,50.
Recensione di Giovanni De Luna
Fin dal titolo, Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, il libro di Ruffolo sembra evocare la geopolitica per avvicinarsi a una definizione soddisfacente di cosa si intende oggi per identità nazionale.
Il carattere mediterraneo degli italiani nascerebbe direttamente dalla nostra collocazione geografica, così come, ad esempio, il militarismo dei tedeschi dovrebbe scaturire dalla loro collocazione nel cuore dell’Europa, dall’essere perennemente impegnati su due fronti, quello orientale, contro la Russia, e quello occidentale, contro la Francia e l’Inghilterra.
La tesi del libro è che, proprio a causa della «lunghezza» della penisola, la nostra unità nazionale è sempre stata precaria, sottoposta a sollecitazioni e spinte centrifughe che ne hanno minato solidità e compattezza.
Per Ruffolo l’unità nazionale è stata comunque un bene. Ma il suo libro non è ottimista. I rischi oggi arrivano sia dal Nord (la forte tentazione di un «Belgio grasso») che dal Sud, con la deriva mafiosa. Ma più di tutto lo preoccupa l’appannarsi di qualsiasi senso di appartenenza, il dileguarsi di tutti i valori identitari che non siano quelli che si realizzano in «pulsioni di ricchezza e di baldoria, disprezzo della politica, tribalismo calcistico, e, soprattutto onnipotenza della cura dei propri affari, su ogni altra preoccupazione sociale».
Quale che sia la sua tesi, è da apprezzare che finalmente un intellettuale e un politico di sinistra affronti senza remore un tema a cui guarda tutta l’Europa, anche per lo choc provocato da quel 57,5% di svizzeri che hanno votato per proibire la costruzione di minareti. In Francia, sull’identità nazionale è stata avviata un’iniziativa «ufficiale» del governo che ha organizzato riunioni, gestite dai prefetti, in tutti i 96 dipartimenti per chiamare «l’insieme delle forze vive della nazione» a confrontarsi su una specie di questionario, con duecento domande divise in due parti, la prima significativamente intitolata «essere francesi oggi».
L’operazione è stata gestita da Eric Besson e dal suo ministero che – non a caso si chiama «Immigrazione e identità nazionale», ed era tesa a dare una sorta di statuto istituzionale a tutti i pregiudizi più ovvi, a partire dalla tendenziosità della domanda iniziale («Perché ci sentiamo vicini agli altri francesi anche senza conoscerli?») per finire a un elenco degli elementi dell’identità nazionale («i nostri valori, il nostro universalismo, la nostra storia, il nostro patrimonio, la nostra lingua, la nostra cultura, il nostro territorio, la nostra arte culinaria, le nostre chiese, le nostre cattedrali...») che sembra ritagliato sull’immaginario della destra profonda.
La sinistra è stata dapprima silenziosa e incerta, poi finalmente è uscita allo scoperto con un vigoroso discorso di Martine Aubry: «non si comincia con il dire “La Francia tu l’ami o tu la lasci”, ma “La Francia che si ama è quella che dice la Francia tu l’ami dunque tu la costruisci con noi”».
Qui da noi la sinistra affronta malvolentieri temi «identitarii», alle prese con una preoccupante incapacità di definire anzitutto la propria identità. Eppure la penisola non è un luogo geografico, un hic sunt leones.
L’identità nazionale esiste e Ruffolo ci ricorda come sia intrinsecamente legata alle ragioni dello Stato unitario. Ma, al contrario di quanto pensa la destra, non è un’entità immobile, un’eredità «della terra e dei morti» da accettare e difendere contro le corruzioni straniere. Quell’eredità va sottoposta al beneficio dell’inventario, accogliendone tutte (e solo) quelle parti che si configurano come i valori di una democrazia inclusiva (a partire dall’adesione politica ai principi dei diritti dell’uomo e del contratto sociale), lungo un percorso che Ruffolo definisce efficacemente come il passaggio dalla «gente» al «popolo».
Tuttolibri, supplemento de La Stampa, 16 gennaio 2010