La cura Tremonti sulle aziende del Sud

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È francamente arduo dare un giudizio definitivo degli effetti che la manovra finanziaria del governo avrà sulle regioni meridionali e in Campania. E ciò è determinato sia da qualche motivazione di carattere generale sia da qualche perversa specificità della nostra regione.

Le motivazioni generali sono presto svelate: il decreto legge del Consiglio dei Ministri del dodici agosto scorso concernente il consolidamento del bilancio pubblico, intimato, di fatto, dall’Europa e sponsorizzato dalla Presidenza della Repubblica, sta subendo modifiche radicali. Rimane, tuttavia, la circostanza che simili mutamenti non ne modificano lo spirito regressivo e recessivo.

 

La seconda notazione deriva dalla prima: è difficile, a meno di non eccedere nei lamenti e nel vittimismo, trovare nuovi elementi di penosità sociale causata dalla vocazione antimeridionale del governo e, dunque, anche da questa manovra. Si continua a sparare sull’ambulanza del mezzogiorno prima con interventi di prosciugamento dei fondi a esso destinati; ora con il disinteresse per gli effetti che ne derivano.

La Campania, poi, su questa ambulanza è il malato più grave: secondo le anticipazioni fornite dalla Svimez dal suo prossimo Rapporto, la nostra regione registra il più grave deterioramento di tutti, dico tutti, gli indicatori reali nell’ultimo biennio: occupazione, esclusione giovanile, consumi e investimenti, povertà assoluta e relativa. Quanto una simile esplosiva miscela dipenda dall’inattività pilatesca di una giunta devota agli assunti tremontiani e quanto essa sia aggravata da un’opposizione silente e impreparata, quando non consociativa, è complesso discernere.

Di sicuro la manovra finanziaria mette fine a un’illusione che molti ambienti continuavano a preservare, ovvero che fosse possibile coniugare il consolidamento del bilancio pubblico e l’espansione, o il solo mantenimento, dei livelli della produzione e dell’occupazione. Si è trattato di una favola in voga per alcuni lustri in Europa, sirena dalla cui fascinazione sono stati attratti anche leader nostrani d’inattesa latitudine politica.

Per dirla tutta: l’azione di “risanamento” dei conti pubblici rallenta una crescita prossima allo zero, come afferma anche la Banca d’Italia, e amplifica un processo di stagnazione e di depauperamento produttivo i cui esiti di medio periodo sono difficili da prevedere e da quantificare. Quale che sia la vulgata che le fonti governative ne faranno nei prossimi giorni, due terzi della stabilizzazione di bilancio si basano su maggiore tassazione da redditi medi, la cui propensione alla spesa è maggiore di quella dei cespiti patrimoniali elevati o dei capitali che hanno goduto del privilegio del famigerato scudo fiscale.

Questo è il limite, non solo etico, della manovra: la contrazione della domanda aggregata a seguito della vessazione di quel reddito disponibile inevitabilmente spendibile. Rimossa dalle mode liberiste, criticata nella modellistica della finanza del debito pubblico, la domanda aggregata, e cioè la spesa solvibile sul mercato, conserva intatta la sua capacità esplicativa quale causa efficiente delle espansioni e delle recessioni. E nel Mezzogiorno essa è oramai crollata, sia essa pubblica o privata. La Svimez ne è ben consapevole: a Sud il reddito crolla poiché gli effetti deflazionistici sono ovviamente maggiori in un’economia debole e poiché la domanda è inferiore laddove al taglio del bilancio pubblico non si accompagna una rilevante detenzione di titoli da parte delle famiglie.

Ma poiché pare che le motivazioni di urgenza sociale non suscitano particolare emozione su chi ci governa, preme sottolineare una circostanza che riguarda la struttura delle imprese industriali che operano nel Mezzogiorno e che è stata sollevata da Confindustria.

L’organizzazione datoriale, effettuando un’interessante analisi della “economia e finanza delle imprese del Mezzogiorno durante e dopo la crisi” analizza lo stato attuale delle aziende con un fatturato annuo superiore a un milione di euro. Ne esce un quadro allarmante che avrebbe meritato una qualche attenzione dai ministri interessati alla manovra di “risanamento”. Le imprese meridionali manifatturiere, caratterizzate da una più bassa propensione a esportare, hanno, a seguito della crisi, polarizzato le proprie posizioni tra quelle poche che sono stato in grado di reagire e le molte che hanno deteriorato redditività e posizione finanziaria. La manovra, oggi, acuisce e esalta la torchiatura della crisi finanziaria, velocizzando la tendenza a rendere verso un territorio industrialmente desertificato in cui sopravvivono pochi eletti stabilimenti e ancor più polarizzando una struttura produttiva già ampiamente eterogenea.

Dopo la grande impresa, pubblica e privata, se ne va anche quella media locale, efficiente o meno, ma sempre necessaria. E noi tutti stiamo a guardare, nel rigoroso rispetto dei conti pubblici nazionali e regionali.

Ugo Marani

La Repubblica Napoli | venerdì 2 settembre 2011