I miei anni all’Antimafia

Gerardo Chiaromonte, a cura di Vincenzo Esposito, 

I miei anni all’Antimafia. 1988-1992

prefazione di Giorgio Napolitano, postfazione di Emanuele Macaluso, Napoli 2007

mafiacopI miei anni all’antimafia ci restituisce pensieri, riflessioni, giudizi sui temi cruciali della lotta alla mafia e la giustizia di un uomo che assolse i suoi compiti istituzionali con grande passione politica e civile, a servizio della verità.

chiaromonte fu un uomo politico del sud, uno studioso della questione meridionale e la prima considerazione che fa nel raccontare la sua esperienza alla commissione antimafia attiene proprio all’incidenza che ha avuto ed ha il fenomeno mafioso nel determinare le condizioni del mezzogiorno.

Chiaromonte descrive i comportamenti degli apparati pubblici nei confronti di quel complesso strato che opera “nel e attorno” al sistema mafioso. non bastano riforme che sembrano dare più efficienza allo stato nella lotta alla mafia se non c’è una volontà politica che le sorreggano. l’esempio dell’istituzione dall’alto commissario e di come avvenivano le nomine dei responsabili è una delle esperienze più amare raccontate nel libro.

Chiaromonte promosse un’indagine a milano e le sue conclusioni furono sconvolgenti. anche se l’intreccio fra interessi leciti ed illeciti si rivela perverso, egli rifiuta di considerare milano come palermo o napoli. ma proprio perché il capoluogo lombardo era altra cosa poteva essere “usato” da cosa nostra.

in questo libro i temi della giustizia sono affrontati raccontando “fatti” commentati con giudizi che sono di grande attualità. le pagine su falcone sono da rileggere per capire il dramma di un magistrato che aveva maturato una straordinaria esperienza e voleva utilizzarla innovando le stesse strutture giudiziarie e, invece, fu stritolato nel mondo giudiziario ed in quello politico.

la fatica di chiaromonte di far prevalere la cultura dello stato di diritto non ha avuto successo, né a sinistra né a destra e le conseguenze sono devastanti. oggi tutta la situazione politica ruota attorno a questo nodo non sciolto del rapporto tra politica e giustizia. la battaglia per fare prevalere la cultura dello stato di diritto deve però continuare per dare senso e forza alla democrazia.

a questo fine serve la lettura di questo libro.

 

prefazione Giorgio Napolitano

 

Il tempo trascorso dalla scomparsa di Gerardo Chiaromonte consente di cogliere ancora meglio la portata della testimonianza che ci ha lasciato, il valore del lavoro che svolse e delle posizioni che assunse. Posizioni controcorrente, prima e dopo la svolta del 1992.

Solo tra il ‘94 e il ‘95 ci sono stati in diversi ambienti ripensamenti che hanno di fatto dato ragione a Gerardo Chiaromonte: ma senza che vi si accompagnassero serie autocritiche, e onesti riconoscimenti del rigore e della preveggenza degli interventi di un uomo politico troppo presto condannato dalla sorte al silenzio. E allora, facciamolo parlare attraverso le pagine di questo postumo libro incompiuto: e cerchiamo così di rendergli giustizia e di suscitare una riflessione feconda attorno al suo messaggio.

Nei mesi che videro avvicinarsi la morte, Gerardo dové spesso sentirsi quasi solo, impegnato a condurre una battaglia quasi disperata per l’incomprensione contro cui urlava in un contesto di crescente gravità. È possibile che non si riesca a sollevare anche con la pubblicazione di questo libro un’eco che risarcisca di quella solitudine e sofferenza la sua memoria ed elevi il tono politico e morale del nostro dibattito politico?

Gli anni della commissione antimafia si rivelarono più importanti, per Gerardo Chiaromonte, di quanto egli potesse pensare nel momento in cui fu designato a presiederla. Di quella designazione egli aveva percepito con amarezza l’aspetto politico, di partito, dell’allontanamento dalla direzione de l’Unità, e aveva nello stesso tempo presentito l’effetto di cambiamento che poteva comportare nella angolatura del suo rapporto con la politica. In effetti quel rapporto si liberò di ogni condizionamento di parte, si arricchì di un ancora più alto e forte senso dello Stato, si identificò con la coscienza di una missione, al servizio della democrazia, per la salvezza della democrazia. In quegli anni, e ancora dopo, fino alla morte, era stata in lui dominante come in altri periodi la preoccupazione per le sorti del sistema democratico: una preoccupazione perfino angosciosa dinanzi a fenomeni e pericoli reali, e in qualche modo sempre sollecitata da una valutazione forse troppo drammatica – propria della sua e mia generazione – degli elementi di fragilità della democrazia in Italia. Una democrazia rinata nel segno della Resistenza vittoriosa ma anche del pesante retaggio del fascismo, e destinata a fare i conti con vecchi e nuovi impulsi reazionari nel seno della società e dello Stato.

Quando tornò a occuparsi più da vicino della mafia e del Mez-zogiorno, Gerardo ebbe modo di toccare con mano la gravità delle degenerazioni, la profondità del degrado, che avevano colpito soprattutto una parte del paese ma in realtà stavano investendo ben più largamente il tessuto della vita civile e politica democratica del paese. E si impegnò con tutte le sue forze a gettare l’allarme, a suscitare reazioni, a formulare proposte, perché si mettesse in moto un processo di risanamento prima che fosse troppo tardi. Si imbatté in ostilità e sordità, non esitò a muoversi controcorrente. Diede contributi di grande rilievo, riuscì a trovare punti di riferimento e ad ottenere parziali risultati; ma quando concluse la sua attività di presidente della commissione antimafia nel ’92, il sistema politico – coalizione dei partiti di governo ed equilibri istituzionali – era ormai sul punto di crollare, e l’aggressività mafiosa avrebbe di lì a poco toccato il culmine con gli assassinii di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.

Il lettore potrà constatare – leggendo la pur incompleta ricostruzione lasciataci dall’autore, tra capitoli redatti in veste definitiva, altri da rivedere e altri ancora rimasti allo stato di semplici titoli – con quanta intelligenza e passione, dedizione e capacità di lavoro, come sempre e nonostante la malattia, Gerardo portò avanti il suo compito e il suo programma. Viaggi, sopralluoghi e incontri personali, missioni ufficiali e collettive, relazioni annuali di carattere generale e relazioni su situazioni specifiche (quarantotto documenti trasmessi al parlamento in meno di quattro anni); proposte, non solo analisi. «Feci la scelta di dare al lavoro della commissione, oltre a un taglio di presenza politica e di denuncia immediata su quel che accadeva, e di controllo dell’azione del Governo e delle sue varie articolazioni e strutture, una caratteristica chiara di tipo propositivo». Progetti volti a modificare le normative vigenti in materia di appalti, subappalti, concessioni, a intervenire sul riciclaggio del denaro di illecita provenienza, a rivedere la legge Rognoni – La Torre, a potenziare le strutture giudiziarie e le forze dell’ordine nelle zone ad alta intensità mafiosa: tentativi affannosi per aprire vie di ristabilimento della legalità e anche di risanamento politico, prima che venisse il peggio.

Da Gela e da Reggio Calabria – “due città che in verità vivevano fuori da ogni legge e dalla Costituzione” – a Milano, Gerardo Chiaromonte non cade in sommarie assimilazioni e in gratuite etichettature. Gli è ben chiaro come del tutto peculiare, storicamente e nei suoi dati di fondo, sia la situazione del Mezzogiorno, la presenza della mafia e della criminalità organizzata nelle regioni meridionali. Lì esse “godono di un consenso sociale di massa”, per effetto di condizioni economiche e sociali che producono attraverso la dilagante disoccupazione “un serbatoio pressoché inesauribile di manovalanza mafiosa e camorristica e alimentano un’illegalità diffusa”.

Ma in Milano la commissione antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte individuò l’epicentro del riciclaggio del denaro di provenienza illecita nonché di vasti traffici di armi, e denunciò «il ricorso frequente a pratiche di corruzione o ad indebite pressioni per ottenere, da parte della locale amministrazione pubblica, favoritismi e vantaggi ingenti, in grande misura finalizzati a speculazioni immobiliari»; denunciò più in generale l’ampliarsi degli spazi in cui possono insinuarsi “perversi intrecci tra affari, amministrazione e politica”. Denunciò tutto questo – come sottolinea nel suo libro Chiaromonte – «ben prima che si aprisse, con le confessioni di Chiesa, il capitolo drammatico dell’inchiesta Mani pulite”. Ma purtroppo non seguì alle segnalazioni della commissione antimafia “nessuna iniziativa, di nessun gruppo politico perché il Senato o la Camera dedicassero, con un dibattito, la loro attenzione alla situazione di Milano».

Alto senso dello Stato significa severità nel valutare i comportamenti di tutte le parti politiche, di tutti i soggetti pubblici, di ogni persona investita di responsabilità. Parli di Reggio Calabria o di Milano, dei partiti di governo o dei partiti di opposizione, del Presidente del Consiglio o dei ministri degli interni e della giustizia, Gerardo Chiaromonte dà a ciascuno il suo, con serietà e piena libertà. Riferisce sconcertato e allarmato sugli atteggiamenti di rassegnazione e disimpegno anche di alti funzionari dello Stato, su reazioni di disinteresse o negligenza anche ad alti livelli di governo. E non tace sul prevalere negli stessi gruppi del pci-pds di propagandismi e strumentalismi, a scapito di atti concreti di intervento su situazioni concrete.

Ma Gerardo Chiaromonte sa nello stesso tempo dare merito a chiunque abbia trovato capace di comportamenti corretti e combattivi nell’esercizio delle proprie responsabilità sul fronte della lotta contro la mafia. Scrive pagine non solo di commosso omaggio ma di sincera ammirazione – pur dando conio di divergenze e riserve – e di vibrante carica umana su Giovanni Falcone e su Paolo Borsellino. E non esita, in pieno 1993, a ribadire il suo giudizio nettamente positivo sulla collaborazione sperimentata con Claudio Martelli e con Enzo Scotti, sul contributo venuto da entrambi quando diressero i dicasteri della giustizia e degli interni. Tutti i suoi giudizi sulle persone, nel bene e nel male, possono essere discussi, se qualcuno ha oggi elementi per contestarli; ma dimostrano un’onestà, una schiettezza, un coraggio, che fanno onore a Gerardo Chiaromonte e costituiscono una lezione per tutti noi.

Prima e dopo la radicale cesura del ‘92, il filo delle preoccupazioni e della battaglia di Gerardo scorre nel modo più fermo e coerente lungo alcuni temi: il ruolo dei partiti e le loro degenerazioni, il rapporto politica – mafia e società politica – società civile, il ruolo della magistratura e il risanamento del sistema politico. È netto e intransigente contro ogni ambiguità e connivenza di forze politiche e di uomini di governo, ma respinge le rappresentazioni sommarie e generalizzate di un fenomeno complesso come quello degli intrecci tra politica e mafia. Combatte con tutta la sua autorità morale contro le deviazioni dei partiti, si pone con angoscia il problema del loro rinnovamento, ma reagisce a una campagna ossessiva e fuorviante sulla partitocrazia come causa e spiegazione di tutti i mali della democrazia e del paese, reagisce a una lotta contro la partitocrazia che diventi lotta indiscriminata contro i partiti. Nega ogni fondamento di verità – alla luce delle indagini sul Mezzogiorno ma anche su Milano – alla contrapposizione tra società politica marcia e società civile sana. E si interroga in modo tormentato sul vuoto che non solo l’arroganza e l’abuso del potere, ma anche l’incapacità della parte migliore delle forze politiche e delle istituzioni democratiche di risanare e rinnovare tempestivamente il sistema, avevano aperto e reso grave al punto che dovesse poi colmarlo il potere giudiziario, col rischio di straripamenti e conflitti gravidi di conseguenze negative sotto diversi profili.

Dopo essersi trovato controcorrente negli anni precedenti lanciando allarmi e sollecitando cambiamenti con una drammaticità che cozzava contro pesanti resistenze e non otteneva sufficienti riscontri positivi, esenti da ottiche di parte, sul terreno della lotta contro la mafia in tutte le sue implicazioni, Gerardo Chiaromonte si trova – non più Presidente della commissione antimafia – ancora controcorrente nell’ultimo anno che gli resta da vivere. Ha sostenuto e sostiene limpidamente l’azione di quanti nella magistratura perseguono con decisione il ristabilimento della legalità; forte di questa sua posizione, sente di dover mettere in guardia nei confronti di comportamenti scorretti e abusivi di qualsiasi magistrato o Procura della Repubblica; sente di dover invocare “l’assoluto rispetto delle norme dello Stato di diritto”, di dover reagire ad ogni presunzione, da parte della magistratura, “di responsabilità che in uno Stato pluralista spettano ad altri”. E lo fa in termini concreti, intervenendo su casi specifici e rilevanti, chiamando in causa anche magistrati che rispetta e appoggia nel loro difficile compilo. Lo fa in un clima febbrilmente avverso: “tutti i giornali e molti partiti” sono stati invasi da una marea che può chiamarsi “magistrato-dipendenza”, e invece Chiaromonte considera tra i suoi doveri “anche quello di resistere a ondate emozionali e irrazionali di massa”. Contesta la tendenza dilagante ad affidare al potere giudiziario il compito del risanamento del sistema politico. Gli tocca difendersi, con forza e con sdegno, dall’accusa di “leso Montesquieu” per aver mosso “critiche all’operato di questo o quel magistrato”.

Vorremmo che i tre rigorosi e appassionati articoli del ‘93 pubblicati in calce al libro fossero letti, o riletti, da coloro che lo lasciarono solo, per esprimere poi, tardivamente, preoccupazioni dello stesso segno.

Sono stato partecipe del travaglio di Gerardo, della sua fatica “negli anni dell’antimafia”. Mi parlava di quel lavoro difficile, delle scoperte talvolta sconvolgenti ma anche delle iniziative o degli incontri che gli procuravano momenti di entusiasmo. La tensione, e il crescere del pessimismo, non spegnevano mai, nel suo animo, la capacità di accendersi, non gli impedivano di raccogliere e fare suo qualsiasi segno di vitalità democratica, qualsiasi motivo di fiducia, qualsiasi stimolo culturale e umano gli venisse dal contatto quotidiano col mondo della politica, con la realtà del paese, della società civile, dello Stato. Era un uomo ricco di umori e di passione.

Fummo in piena sintonia anche tra il ‘92 e il ‘93. Gerardo aveva, all’inizio di quella cruciale undicesima legislatura, lasciato la presidenza della commissione antimafia per assumere la responsabilità del comitato per i servizi di informazione e sicurezza, si era applicato con scrupolo a questo nuovo compito, pur esso delicato e scabroso, ma ben presto il suo assillo maggiore divenne il terremoto politico e giudiziario da cui erano investite l’opinione pubblica e le istituzioni democratiche. Condividemmo ansietà e punti di vista su quel che accadeva giorno per giorno; da Presidente della Camera non potevo scendere in campo, intervenire politicamente e polemicamente come lui, ma gli ero più che mai vicino. E mi ha commosso ritrovare oggi in quegli articoli del ‘93 riferimenti così positivi a mie prese di posizione ufficiali che lo sostenevano nella sua battaglia.

Vorrei che su questo libro si aprisse una discussione vera, senza infingimenti: per poter prendere le parti dell’autore.

 

Giorgio Napolitano