«Je suis Charlie» la riflessione critica: Achille Flora

 

Il simbolismo del terrore

di Achille Flora, docente di Economia dello sviluppo presso la Seconda Università di Napoli ed Economia e politica dello sviluppo presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"

 

floraSuperato il primo shock provocato dall’attentato contro la redazione di Charlie Hebdo, quello che rimane è il simbolismo di un attacco contro un santuario del mondo occidentale, la libertà di stampa e di opinione.

Qualcuno ha detto che è l’11 settembre europeo e credo abbia ragione. Il terrorismo jihadista propone immagini simboliche che restano nel nostro immaginario, segue una spettacolarizzazione dell’orrore e dei conflitti attraverso cui diffondere insicurezza che nessuna potenza militare, economica o tecnologica può totalmente eliminare. 

 

 

Evidenzia anche il fallimento delle politiche d’integrazione, tanto più grave perché colpisce una democrazia come quella francese che dell’inclusione e della tolleranza per la diversità ha fatto una sua ragion d’essere. Quest’apertura le ha risparmiato negli anni ’70 del novecento la stagione del terrorismo, che tanto sangue e una frattura generazionale ha provocato nel nostro Paese. Parigi no, ha saputo dialogare e integrare la generazione della “fantasia al potere”. Non vi è riuscita però con gli immigrati, per il concorrere di molte cause: per la loro emarginazione sociale e territoriale nelle anonime banlieue, per la numerosità dei musulmani presenti, per gli effetti della crisi economica. Il terrorismo jihadista non è, però, solo un problema francese e le sue radici affondano in cause e problematiche globali: dal conflitto israeliano-palestinese all’intervento occidentale per esportare la democrazia, fino all’affermarsi dell’integralismo musulmano. 

Non aiuta una concezione della libertà d’opinione e di stampa non frenata da buon gusto e dal rispetto delle credenze altrui. Detonatore capace d’innescare reazioni violente, certo non giustificabili, ma indicative di uno scontro di civiltà che mina alla base la cultura dell’integrazione e dell’inclusione. L’emigrazione, da potenziale vettore di sviluppo - perché la diversità armonizzata arricchisce le nostre società - diviene ora una mina vagante che alimenta la cultura del sospetto e dell’intolleranza.

La primavera araba sollevò molte speranze d’inversione di tendenza. Manuel Castells, nel suo libro Reti d’indignazione e di speranza, aveva ricostruito genesi e potenzialità di un movimento che viaggiava nella comunicazione digitale, attraverso reti di relazioni virtuali. Un movimento post-ideologico paragonato agli Indignatos spagnoli e agli americani di Occupy Wall Street, per le similitudini di apparire, scomparire in canali carsici, per poi riemergere al richiamo della rete. Castells avvertiva anche che le relazioni di potere plasmano le società, non solo attraverso la forza, ma anche attraverso meccanismi di manipolazione simbolica che acquistano significato nell’immaginazione collettiva. Si riferiva al potere costituito, ma era cosciente che, dove c’è un potere, sorge inevitabilmente un contropotere e, quando questo assume le forme diffuse delle relazioni virtuali, anche le persone costruiscono “significati”. Castells non immaginava che questi “significati” avrebbero assunto la forma simbolica delle immagini del terrore. Sperava in “significati” simbolici di valore identitario che unissero gli esclusi e i deboli della società, non certo nel simbolismo degli aerei che entrano nel corpo delle torri di Wall Street o del sangue sotto la sedia del direttore di Charlie Hebdo.