Una riflessione sullo stato di salute del PD

 

di Paolo Giugliano

 

 

Ritengo necessaria una riflessione sullo stato di salute del PD dopo la recente scissione e prima di un congresso che si presenta con tre candidati alla segreteria. In sintesi si può dire che il PD è nato per unire le due anime politiche della società italiana, quella cattolica e quella comunista espresse dalla DC e dal PCI. Dopo il crollo del muro di Berlino il mondo non si ripartiva più in campi di influenza e ideologie contrapposte, sinistra e destra diventavano categorie desuete e la bontà dell’offerta politica si sarebbe misurata sui valori, le idee e i programmi più idonei ad affrontare la modernità.  Da questo punto di vista la fusione delle due anime poteva garantire al meglio una prospettiva di coesione, sviluppo e benessere all’Italia del XXI secolo.

 

Chi però già allora parlava di partito ipotesi, di amalgama non riuscita, di fusione a freddo oggi sembra avere ragione. In questi anni le due anime hanno convissuto senza amarsi, rifugiandosi nelle correnti per mantenere intatte le proprie posizioni di potere.  Quando non c’è un collante comune costituito da obiettivi condivisi e aspirazioni comuni prevale la lotta per il potere fine a se stesso, con tutte le degenerazioni del caso: ipercorrentismo, personalismo e carrierismo.

Si tratta di una analisi troppo cruda? In fondo si parla del primo e unico partito presente nel panorama politico italiano, pieno di movimenti personali, forse, ma il dato degli iscritti, e sopratutto quello delle elezioni amministrative, dimostra che dal PD si sono allontanati migliaia di iscritti, e soprattutto tantissimi elettori.

Per cercare di invertire la tendenza il PD al congresso deve dotarsi di un programma fondamentale che segni la sua identità politica e la sua collocazione nella società italiana. Al centro ci dovranno essere tre questioni: il lavoro che manca, quello che c’è e quello che cambia; il welfare; i diritti di cittadinanza sociale e civili vecchi e nuovi.

A questo programma dovrà corrispondere una forma partito adeguata ai tempi, superando il dibattito sulle definizioni di questi anni (partito leggero, liquido, personale) e individuare un leader che valorizzi il Noi rispetto all’Io, non come ha fatto Renzi in questi anni che per affermarsi ha distrutto quel poco di partito che c’era, allontanando i movimenti che ad esso guardavano con favore.  

Un partito è utile se è percepito come strumento idoneo per contribuire a risolvere i problemi delle persone a partire da quelli del territorio, inteso come luogo antropico e non solo abitato.  I Circoli devono corrispondere alle Municipalità, lì dove esistono, ed essere aperti a movimenti, associazioni, volontariato e quant’altro.

A Napoli, poi, il PD è preda di una coazione a ripetere definita precisamente dall’enciclopedia Treccani come un “doloroso ripetersi di situazioni ed eventi che si dimentica di aver già vissuto e prodotto”. Ormai fra primarie taroccate, tesseramento gonfiato e listopoli il PD è diventato altro. Con l’11% di consenso elettorale è capace di dividersi nell’opposizione alla giunta De Magistris in due parti, gli alternativi e i consociativi con il bel risultato di essere evanescenti e ininfluenti.

Da un lato ci sono gli alternativi che in consiglio fanno una opposizione frontale al sindaco all’altezza di un partito di governo, senza tener conto però che l’11% gli conferisce una forza relativa e insufficiente ad affermare le proprie ragioni. Una alternativa non è credibile se non è sostenuta dalla mobilitazione dei mondi vitali della città.

I consociativi, molto più minimalisti, praticano una “opposizione governante” per portare qualche risultato ai loro bacini elettorali e ai “segmenti e bastoncini” di società napoletana di loro riferimento.

Il PD a Napoli è stato commissariato due volte. L’errore dei commissari è stato quello di non aver provato a smantellare le correnti, ma di aver ricercato l’accordo sulla base del punto di non ritorno a cui la situazione del PD napoletano era giunta. Tentativo fallito perché la ricerca di un minimo comune denominatore tra le correnti, aree e gruppi, si è scontrata con la pretesa di ciascuno di dettare agenda e organigramma del rinnovamento.

E’ ora che il centro nazionale del PD si convinca che a Napoli servono due commissari, uno politico e l’altro organizzativo. L’uno dedito all’iniziativa politica e l’altro alla trasparenza amministrativa. Il loro compito prioritario, però, dovrà essere quello di promuovere una nuova generazione ai vertici del PD napoletano, operazione, questa, indispensabile per assicurare futuro ai democratici napoletani.